Affari e Finanza 21 gennaio 2008, Adriano Bonafede, 21 gennaio 2008
Fondi d’investimento, radiografia di un disastro. Affari e Finanza 21 gennaio 2008. Perdono continuamente clienti come un rubinetto rotto perde l’acqua
Fondi d’investimento, radiografia di un disastro. Affari e Finanza 21 gennaio 2008. Perdono continuamente clienti come un rubinetto rotto perde l’acqua. Clienti insoddisfatti che preferiscono farsi ridare i soldi indietro e impiegare i propri risparmi in un altro modo. Comprensibile: perché questi strumenti rendono poco e, colmo dei colmi, costano anche molto, persino quando le cose vanno male. La crisi dei fondi d’investimento italiani meno 53 miliardi nel 2007 non è più un fenomeno transitorio, ma qualcosa di strutturale. E, si potrebbe dire, persino di irreversibile. Insomma, una crisi profonda, che mette in forse anche la sopravvivenza di molte società di gestione, e obbliga quelle che vogliono restare sul mercato a cercare una svolta. Mentre da più parti s’invoca un intervento del Governo per eliminare la particolare tassazione dei fondi italiani, che li penalizza rispetto a quelli stranieri, e le maggiori incombenze burocratiche. Insomma, sembra proprio di essere alla vigilia di un radicale ripensamento di questo strumento, nato oltre vent’anni fa per colmare un vuoto normativo e consentire anche agli italiani di investire in azioni e obbligazioni senza essere costretti a comprare singoli titoli ma diversificando il rischio. Ormai la diagnosi dei mali di cui soffrono i fondi italiani è completa. E non intervenire adesso metterebbe a rischio la loro stessa sopravvivenza. Lo scorso novembre Assogestioni, l’associazione che riunisce la gran parte delle società di gestione (a loro volta perlopiù facenti capo a gruppi bancari) ha organizzato un convegno a cui ha partecipato, come relatore, un pezzo da novanta come Luigi Spaventa. A quest’ultimo è toccato di spiegare il perché della fuga dai fondi, che dura ormai da diversi anni, anche se ultimamente ha avuto un’accelerazione sorprendente. Crolla la raccolta netta. La cesura rispetto a un passato tutto sommato brillante è datata 2000. Quell’anno la raccolta netta dei fondi (ovvero il saldo fra nuove sottoscrizioni e riscatti) si ferma per la prima volta, anche se ha ancora un seppur piccolo segno positivo. Il declino dei fondi italiani comincia nel 2001, quando appare per la prima volta un rosso nella raccolta netta: il saldo totale è però ancora positivo grazie ai fondi esteri (la maggior parte dei quali sono roundtrip, ovvero costituiti all’estero da società di gestione italiane). Un 2002 piatto lascia il posto a un 2003 con un segno più per i fondi italiani: a questo punto, però, cominciano a crescere gli strumenti esteri e così faranno per tutti gli anni successivi, salvo una leggera diminuzione della crescita nel 2006. Nel 2004 i fondi italiani sono in forte rosso, e la crisi continua nel 2005 e si protrae, approfondendosi, nel 2006, quando il passivo totale (esteri inclusi) è intorno ai 9 miliardi (42,5 solo italiani). Nel 2007 il crollo diventa una valanga: meno 53 miliardi. Rispetto al 1997, il peso dei fondi in mano alle famiglie sul Pil si riduce del 22,1 per cento. Dove vanno i risparmi. L’altra bella domanda è dove vanno a finire i soldi che escono dai fondi, visto che comunque gli italiani continuano a risparmiare. La risposta è contenuta in una slide dell’intervento di Spaventa: vanno a finire soprattutto in obbligazioni strutturate e, soprattutto, in polizze vita e fondi pensione (che insieme aumentano di quasi il 15 per cento sul Pil). Da qui l’accusa, che le società di gestione rivolgono alle loro stesse casemadri, le banche, di spingere volontariamente i risparmiatori ad abbandonare i fondi per allettarli con obbligazioni strutturate e polizze. Su questi prodotti continua l’accusa le banche lucrano subito delle belle commissioni che mettono nel bilancio dell’anno. Ma, così facendo, prosciugano il mare dove nuotano le loro sgr. Le banche respingono le accuse al mittente: se i risparmiatori fuggono dai fondi italiani, ciò è dovuto al basso rendimento che questi ultimi offrono. Inoltre, gli italiani amano meno degli altri rischiare e pretendono sempre più prodotti con garanzia del capitale, che possono essere offerti con obbligazioni strutturate. Dunque, gli istituti di credito non fanno altro che assecondare i bisogni espressi dai clienti. Difficile dar torto alle aziende creditizie. Se si prende un’altra tabella allegata alla relazione di Spaventa, si vede che i fondi azionari hanno avuto dal 2000 ad oggi rendimenti sempre più bassi del rispettivo benchmark (l’indice preso a riferimento): meno 10,4 per cento rispetto al Mib e meno 1 rispetto all’Msci World. Un’analisi più dettagliata svolta da Morningstar (vedi articolo in basso) arriva più o meno alle stesse conclusioni. Il fattore fiscale. Per spiegare i bassi rendimenti, le sgr hanno spesso posto sotto accusa il trattamento fiscale dello Stato italiano, che anticipa la tassazione sul ”maturato’, ovvero quando le plusvalenze non sono state ancora realizzate. Spaventa mostra però che nel lungo periodo le differenza tendono ad annullarsi, ma rileva anche che il credito d’imposta può diventare un problema quando "raggiunge una proporzione degli attivi tale da influenzare significativamente la politica degli investimenti". Del resto, lo stesso Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha chiesto al legislatore di rivedere la tassazione. E le sgr puntano il dito anche su una serie di incombenze burocratiche assai più onerose che all’estero. Le commissioni elevate. Più che l’influenza del fisco, gioca un fattore nei bassi rendimenti il fattore ”commissioni’. Sono eccessivamente alte, dice Spaventa, pari all’1,4% del patrimonio dell’anno nella media 20002006. E, soprattutto, non variano rispetto al rendimento del mercato (ovvero, quando le cose vanno male, e il cliente guadagna poco o perde, le commissioni restano stabili). La svolta. Poiché le sgr italiane non possono continuare a perdere clienti e patrimonio, una svolta è ormai attesa. Ad esempio, se le sgr sono troppo piccole, non possono competere con i colossi internazionali: forse in questo caso è meglio vendere, come sta facendo ad esempio il Mps con il suo asset management. «Oppure spiega Marcello Messori, presidente di Assogestioni è meglio trovare una specializzazione». Mentre per le sgr che già si sono accorpate in virtù dei processi di aggregazione bancaria «sono possibili ulteriori consolidamenti», per raggiungere una massa critica ancora più grande Adriano Bonafede