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 2008  gennaio 21 Lunedì calendario

Cཿerano i soldi ma è mancata la cultura del risparmio

C’erano i soldi ma è mancata la cultura del risparmio. Affari e Finanza 21 gennaio 2008. Avevamo la materia prima, il risparmio, ma non la cultura del risparmio finanziario. Noi siamo il popolo dei Bot, della prima e seconda casa, dei soldi alla Posta e anche, non marginalmente, sotto la mattonella della cucina. La Borsa era piccola cosa, un mondo chiuso per addetti ai lavori, gli altri erano ”il parco buoi’, o più realisticamente ”pecore’ da tosare con regolarità. Il salto di qualità doveva farcelo fare il ”risparmio gestito’, i fondi di investimento, quella cosa che ti consente di entrare nella finanza diversificando il rischio e affidandoti a mani professionali, capaci di valutare le aziende, di leggere i bilanci, di far eventualmente sentire la propria voce sulla qualità della governance delle imprese. I fondi sono arrivati, più tardi rispetto ad altri paesi, ma negli anni ”90 hanno avuto l’opportunità della vita: la discesa rapida dei rendimenti sui titoli di stato ha creato un mercato. Il popolo dei Bot era rimasto orfano e cercava alternative. I Fondi erano lì, pronti ad offrirle e infatti a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo hanno toccato l’apice: una massa gestita di oltre 400 miliardi di euro. Oltre a far crescere la cultura del risparmio finanziario, dai fondi ci si aspettava anche un’altra cosa: che facessero crescere il mercato, non solo nel senso delle dimensioni ma anche in quello della qualità, dello spessore, della credibilità, e di far crescere le imprese. Anche qui non solo in termini di dimensioni ma anche di rispetto per gli azionisti di minoranza, di trasparenza, di qualità della governance. E’ stata una delusione. I fondi di investimento, i tanto attesi ”investitori istituzionali’ si sono rivelati non all’altezza delle aspettative. L’evoluzione della qualità del mercato c’è stata e anche una qualche crescita nella sensibilità delle imprese, ma su questi fronti le battaglie dei fondi sono state poche, marginali e tardive. Comunque poco memorabili. Nel rapporto con i risparmiatoriinvestitori è andata ancora peggio: costi alti e risultati mediocri. Strutture di vendita esose e qualità gestionale tale da offrire performance regolarmente inferiori ai benchmark. Verrebbe da dire che mancano le professionalità, se non sapessimo bene che le banche d’affari internazionali sono piene di genietti finanziari con passaporto italiano. A Londra e a New York. Il fisco non è stato particolarmente amico, ma quello è un dito dietro il quale è facile nascondersi, pesa l’assetto proprietario, largamente dominato dalle banche, pesano anche le dimensioni che probabilmente non sono adeguate al volume di investimenti in ricerca richiesto. Ma trovare o costruirsi le condizioni ottimali per realizzare i propri obiettivi è la sfida di qualsiasi industria. In Italia l’industria del risparmio gestito quella sfida non l’ha vinta. I numeri rendono chiaro a tutti che così come stanno le cose un futuro per questa industria non c’è. Le strade sono due: rinunciare o provarci. La prima vuol dire per il paese perdere una industria importante, nell’unico settore in cui abbiamo una relativa abbondanza di materia prima. La seconda vuol dire avere il coraggio di cambiare, ma questa volta non è tanto alla Roma della politica che si deve guardare, ma alla Milano delle imprese finanziarie. MARCO PANARA