Affari e Finanza 21 gennaio 2008, Salvatore Tropea, 21 gennaio 2008
Lilli e le sue figlie, il mesto finale di una saga familiare. Affari e Finanza 21 gennaio 2008. «Le aziende, quelle di un tempo come quelle nuove, sono fatte di famiglie
Lilli e le sue figlie, il mesto finale di una saga familiare. Affari e Finanza 21 gennaio 2008. «Le aziende, quelle di un tempo come quelle nuove, sono fatte di famiglie. Tutte. Si tratta poi di vedere quanto durano, ma la loro vera essenza è quella, non può che essere quella. Negli Stati Uniti il fenomeno è Bill Gates, in Italia ci sono i Benetton, i Del Vecchio, i Ferrero, sono imprese che appartengono al nuovo. E che altro sono se non espressione delle famiglie che le hanno create? Molti mi telefonano per chiedermi che cosa è stato realmente il capitalismo. E io rispondo: fareste bene a domandarvi che cosa non è e che cosa non sarà, non soltanto che cosa è stato e allora vi rendereste conto che il capitalismo non è mai morto perché dietro ci sono gli uomini, le famiglie.. ». Gianni Agnelli era più che convinto della sacralità del capitalismo familiare quando il suo successore al comando della Fiat, Cesare Romiti, lo aveva messo in discussione. La famiglia come garanzia di continuità e di forza: era un modello che piaceva all’Avvocato fino a impedirgli di ammetterne la possibile esistenza di un altro. Ancora qualche anno e si sarebbe reso conto che forse aveva ragione Walter Lippmann quando sosteneva che «la prova fondamentale del valore di un leader è che si lasci dietro, in altri uomini, la convinzione e la volontà di proseguire la sua opera». Volgendo lo sguardo al milieu industriale della sua Torino avrebbe visto i limiti del capitalismo familiare e la sua difficoltà a navigare nelle acque del nuovo secolo. Oltre a qualche guaio della sua famiglia, avrebbe visto, per esempio, la deriva di quel piccolo gioiello industriale ereditato e portato all’onore del mondo dal suo amico Nuccio Bertone. Un declino annunciato, non contrastato per alcuni anni e infine accelerato dai capricci più che dalle scelte della «terza generazione». Probabilmente lo stesso Nuccio avrebbe avuto difficoltà a immaginare quanto sarebbe successo esattamente dieci anni dopo la sua morte, qualcosa che somiglia molto da vicino all’epilogo di una meravigliosa avventura lunga poco meno di un secolo. Una storia che ha inizio nel 1912 quando Giovanni Bertone, il ventottenne «carradore» originario di Mondovì, cuore della «Provincia Granda» cuneese, decide di fare il balzo da costruttore di carrozze a carrozziere della neonata industria dell’automobile. Questo esordio ha come teatro Borgo San Paolo, poco lontano dall’attuale sede dell’azienda, in una Torino affollata di fabbriche di auto, dalla Fiat a Ceirano, Chiribiri, Diatto, Fast, Fod, Itala, Lancia, Lux, OMT, Nazzaro, Scat, SPA, Taurinia, Ansaldo. La città di Felice Casorati, Riccardo Gualino, Lionello Venturi, Giovanni Pastrone nella quale si inventa e si sperimenta di tutto. Il giovane carradore si mette subito in luce nel plotone dei pionieri della carrozza a motore e nel 1919 realizza la mitica Torpedo montata sulla meccanica SPA 23S e punta decisamente verso il settore delle vetture sportive. Una strada che il figlio Giuseppe percorrerà con successo. Giuseppe Bertone, Nuccio come lo chiamano in famiglia e come sarà poi noto fuori, entra in azienda nel 1933, a 19 anni. E’ un autentico figlio d’arte nel cavalcare l’onda lunga della collaborazione con Fiat e Lancia. Dopo la seconda guerra mondiale la ripresa della Bertone si chiama Lancia Aprilia Cabriolet e Fiat 1100 Stanguellini. Trentacinquenne, Nuccio si fa tentare dal mondo delle corse e gareggia con una Fiat 500 Barchetta personalmente realizzata. Negli anni Cinquanta le commesse della ArnoltMG e della Arnolt Bristol lo proiettano nel firmamento del design mondiale. La Giulietta Sprint del 1954 viene prevista in cinquecento esemplari ma ne verranno costruiti ben 40mila in dodici anni. Poi è un susseguirsi di dream cars i cui nomi sono entrati nella storia dell’automobile: Giulietta Sprint Special, Aston Martin DB2/4, Maserati 3500 GT. E ancora Lamborghini Miura, Urraco, Jarama, Marzal, Espada, Alfa Romeo Montreal, Fiat Dino Coupé, il modello personale della Ferrari 250 GT. Il palmares sembra destinato a non esaurirsi mai e con i suoi modelli arriva a fare qualche irruzione nell’arte moderna passando per la porta di ardite sperimentazioni. Quando nel 1997 Nuccio muore a 83 anni la Bertone da tempo produce e vende direttamente la X1/9. E’ possibile che in questo pur fortunato tentativo di misurarsi con la produzione ci sia l’origine lontana della crisi che più realisticamente si può far coincidere con l’entrata in scena degli eredi, ovvero della moglie, la signora Lilli e delle figlie Barbara e Marie Jeanne con rispettivi consorti Michele Blandino e Eugenio Manassero. Sono loro i protagonisti dell’ultimo decennio della Bertone che minaccia di trasformarsi nell’atto conclusivo di una piece all’insegna dell’improvvisazione e dell’incompetenza alternate alle beghe private e alle ambizioni di un’improbabile continuità. Tra ripicche e litigi approdati in tribunale, le «donne» di casa Bertone perdono la rotta e in non pochi casi danno l’impressione di perdere anche la testa. Gli uomini della partita, tra generi, manager, amici e conoscenti che entrano ed escono nella vicenda come in un vaudeville non aiutano. Anzi sono una delle concause del tracollo. Quando nel 2000 Paolo Caccamo, che era stato per un quarto di secolo a fianco di Nuccio, lascia la Bertone, gli succede Bruno Cena, ex della Fiat di Paolo Cantarella che fa cilecca quando si tratta di portare in azienda la commessa dell’Alfa Romeo GT dirottata su Pomigliano. Cena fallisce anche il colpo con la Opel Tigra Twin (cliente di lungo corso della Bertone). E così gli subentra il marito di Barbara, Michele Blandino che sinora è stato direttore amministrativo. Il suo esordio è un colpo a vuoto con l’austriaca Magna Steyer che si ripete quando si lascia scappare la Opel Astra CC. Blandino gioca anche la carta della diversificazione affidata alla collaborazione nel campo della nautica con la Azimut Benetti ma senza successo. Il «generissimo» viene dimissionato quando ormai è terminata la produzione della Opel Astra e della Cabrio e non ci sono alle viste altre commesse. Al capezzale dell’azienda viene chiamato allora un ex direttore del personale, Vincenzo Tutino, che tenta la strada del salvataggio attraverso una new company con la Fiat di Marchionne per la produzione della futura Lancia cabrio. L’operazione fallisce: si dice che la ragione sia stata la mancanza di un accordo sulla valutazione degli immobili ma forse la motivazione vera è che Marchionne voleva rilevare soltanto 650 dei 1.300 dipendenti. Da questo momento – e siamo già nel 2007 – la partita viene giocata solo dalle donne. Ermelinda Cortese, Lilli, vedova Bertone e presidente dalla società dal 2000, prima nomina Barbara, 39 anni, laurea in economia e commercio, direttore generale, poi entra in conflitto con lei, fino a decidere di licenziarla su due piedi, e anche con l’altra figlia Marie Jeanne. Tramontata l’offerta di Marchionne nel dicembre del 2007 si fa avanti Gianmario Rossignolo con una proposta per la costruzione di un Suv che sembra avere un fondamento. Ma, questa volta è la vedova a non mollare anche perché probabilmente ha o ritiene di avere un asso nella manica che però non piace alle figlie. In pochi giorni anche l’ipotesi Rossignolo tramonta. L’ex vicepresidente della Telecom abbandona e quando deve dare una spiegazione ricorre a una metafora di sapore biblico: «Ero disponibile a fare il Cireneo non il San Sebastiano». Come dire che si sarebbe accollata la croce ma non si sarebbe prestato a fare il bersaglio di frecce. Scagliate da chi è facile immaginarlo nei giorni in cui sul palcoscenico fa il suo ingresso Domenico Reviglio, agronomo di Sanfrè, paesino della provincia di Cuneo, residenza a Montecarlo con società madre in Svizzera, almeno così lui dice anche se da Lugano i suo ex soci prendono le distanze. L’opzione Reviglio non piace alle figlie della signora Lilli alle quali la madre arriva a impedire l’ingresso nella fabbrica in un susseguirsi di litigi e dichiarazioni da far rigirare il povero Nuccio nella tomba. Anche se la sua vedova è convinta che egli dall’aldilà le suggerisca la strategia aziendale per bocca del suo consigliere, tale Vito Truglio, già coinvolto a Milano in un fallimento. E mentre i lavoratori, dal 31 dicembre senza cassa integrazione, attendono di sapere quale sarà il loro destino, la saga dei Bertone continua. Tra l’ipotesi del fallimento e quella dell’amministrazione controllata il tribunale ha scelto di rinviare, nell’attesa che la strada verso l’una o l’altra soluzione sia sgomberata dagli ostacoli seminati a ripetizione dalle «donne» forse anche contro la loro volontà. L’ultimo colpo di scena potrebbe sottintendere un’operazione di speculazione immobiliare, anche perché negli ultimi giorni si è parlato di tutto tranne che dell’unica cosa necessaria per la sopravvivenza dell’azienda, ovvero l’arrivo di qualche commessa che rimetta in moto gli impianti. Il caso Bertone è a questo punto. Come dire: sic transit gloria mundi. Altro che capitalismo familiare. SALVATORE TROPEA