Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  gennaio 23 Mercoledì calendario

Lཿeminenza grigia di Prodi

L’eminenza grigia di Prodi. Panorama 24 gennaio 2008. Quando Romano Prodi occupa la scena, Enrico Micheli si defila. Se invece Prodi vuole fare qualche maneggio senza comparire, ci pensa Micheli. Questo è da vent’anni il rapporto tra il premier e il suo sottosegretario alla Presidenza. L’Innominato e il Nibbio, scomodando Manzoni. Ma non lo scomoderemo, mancando a Prodi la grandezza dell’uno e a Micheli la malvagità del bravo. Meglio evocare Cip e Ciop. Senza precisare chi sia l’uno o l’altro, a tal punto sono intercambiabili. Le due volte in cui Prodi si è intronato a Palazzo Chigi ha nominato Micheli suo sottosegretario e l’ha piazzato nella stanza accanto, a tiro di voce. Nel 1996, la simbiosi era tale che, nell’aula di Montecitorio, Enrico sedeva accanto a Romano sul banco dei ministri, anziché in quello sottostante dei sottosegretari. Aveva sempre qualcosa da sussurrargli all’orecchio e si impicciava di tutto. Fu universalmente detestato per l’invasività. Ministri, sindacalisti e manager di Stato ne parlavano tra loro con epiteti da querela. L’unico riferibile è Prezzemolo che gli è poi rimasto. Tra i detestanti c’era il ministro del Lavoro, Tiziano Treu, della sua stessa parrocchia: allora il Ppi, oggi la Margherita-Partito democratico. All’epoca, Treu era impegnato in una difficile trattativa con i metallurgici. Era a un passo dall’accordo e mancava solo l’incontro decisivo con Prodi a Palazzo Chigi. Fu stabilito di vedersi di notte. Romano però, reduce da un vertice spossante con Helmut Kohl in Germania, sonnecchiava. Enrico allora gli disse: «Ci penso io». Adagiò Prodi ronfante su una dormeuse e si presentò in sua vece nella sala dove aspettavano Treu e i metalmeccanici. Si mise al centro, si fece ricapitolare la questione, disse la sua e chiuse trionfalmente il contratto. I giornali dell’indomani scrissero che era riuscito dove il ministro aveva fallito. Il che era palesemente falso perché si era trovato la pappa pronta. Aveva solo rubato la scena a Treu, prendendosi gli applausi che spettavano a lui. Il ministro non gliel’ha mai perdonata. Nonostante questi trucchetti per ritagliarsi un ruolo, a Prodi importavano soprattutto la premura da balia asciutta di Micheli e la sua fedeltà a prova di bomba, simile a quella che mostra Gianni Letta per il Cav. Letta e Micheli sono, in effetti, l’uno la copia dell’altro. Levigati, suadenti, forbiti, usciti dal medesimo calco dell’antica scuola dc. Con la differenza che Letta ha una graziosa testa bionda da efebo e Micheli una fronte liscia come un ginocchio che gli dà l’aria di un Frankenstein di cera. Quando poi, nel ”98, Prodi venne malamente scalzato da Max D’Alema a Palazzo Chigi, su un punto fu irremovibile: Micheli doveva restare nel governo e controllarne le mosse per suo conto e nome. Così, in veste di controfigura, Enrico fu prima ministro dei Lavori pubblici nel D’Alema I, poi sottosegretario alla Presidenza del D’Alema II e del successivo gabinetto di Giuliano Amato. Oggi, Micheli è sulla soglia dei 70 anni e, reso saggio dall’età, è meno invadente di prima. Tornato a Palazzo Chigi nella solita stanza attigua a quella di Prodi fa con discrezione il suo lavoro. Ha la delega sui servizi segreti e ha riformato senza polemiche questa importante struttura. Si è solo un po’ arrabbiato, essendo un tipo nervosetto, con il Copaco, la commissione parlamentare presieduta da Claudio Scajola di Fi, che si occupa degli 007. Era successo questo. Nel dicembre scorso, si è svolta davanti al Copaco un’audizione di Prodi. I contenuti dovevano restare segreti, invece sono trapelati. Un commissario si era lasciato sfuggire con i giornalisti qualche parola di troppo. Enrico, che quando c’è di mezzo Romano s’infuria come una lupa incinta, ha scritto al Copaco una lettera pepatina. Ha ricordato i doveri di riservatezza, la delicatezza della materia, ecc. Scajola gli ha riposto: «D’accordo sulla segretezza, ma esiste anche il diritto all’espressione politica». Tutto qui. Una piccola tempesta che ha messo a rumore il Palazzo, ma senza arrivare sui giornali. L’episodio, tuttavia, ha rimescolato il sangue di Enrico che, sull’abbrivio, alla prima occasione si è sfogato di nuovo e con clamore. A farne le spese, stavolta, il rifondazionista Fausto Bertinotti. Costui, che è presidente della Camera, aveva affermato poco prima di Natale: «L’esperienza del governo Prodi è esaurita». Una sacrosanta verità. Ma Ciop, indignato per l’affronto a Cip, ha perso il lume degli occhi e ha replicato: «Non ricordo precedenti nel mondo politico occidentale in cui lo speaker di un ramo del Parlamento entri a piedi uniti sulla situazione politica attuale … segno di un affievolimento del senso dello Stato». Da notare il riferimento all’Occidente e il termine inglese «speaker», sottilmente utilizzati per inchiodare Fausto al suo comunismo terzomondista. Ne seguì una gazzarra con richiesta di scuse mai arrivate. Per Micheli è stato un momento di gloria, dopo un anno e mezzo sottotraccia. Per tutti, l’avvertimento che chi osava prendersela con Prodi doveva vedersela con lui. Enrico è un ternano di augusti lombi dc. Democristiano era il padre, Foscolo, dirigente dei consorzi agrari. Democristianone al cubo suo zio, Filippo Micheli, leggendario tesoriere della Dc per decenni. Filippo era un brav’uomo, ma dovendo procurare soldi al partito, aveva le mani in pasta. Con Tangentopoli, tutti quelli come lui divennero sospetti. Così, quando in quegli anni Enrico entrò per la prima volta nel governo, dovette sfumare la parentela. I giornali, sbagliando, scrissero infatti che il neosegretario alla Presidenza era figlio di Filippo. All’istante, Enrico inviò un fax alle redazioni in cui diceva: «Pur legandomi a Filippo Micheli vincoli di stima, non è mio padre». Smentiva di essere il figlio, ma si guardava bene dal dire che era il nipote. Una presa di distanza volpesca, nella speranza che si pensasse a un’omonimia senza legami di sangue. Dà abbastanza l’idea del tipo. Dopo la laurea in legge, Enrico entrò nelle Partecipazioni statali e ci restò sette lustri. Si è sempre occupato di maestranze. Prima all’Alitalia, poi all’Intersind (la Confindustria delle Ppss), infine all’Iri. Quando Prodi, col calcio di Ciriaco De Mita, ne divenne presidente tra l’82 e l’89, Micheli era un burocrate qualsiasi. I due si presero subito. Romano lo promosse capo del personale e lo incaricò di liquidare la siderurgia pubblica. Nonostante fosse di Terni, cuore del settore, Enrico eseguì con la delicatezza di un caterpillar. Gli operai quando lo vedevano apparire facevano gli scongiuri, sussurrando: «Tocchiamoci». Ma non bastò e ne furono licenziati a frotte. Al suo secondo mandato all’Iri, ”92-94, Prodi nominò Micheli direttore generale. Suggellò infine il sodalizio portandoselo al governo. Qui, lo mise alla prova ordinandogli di cacciare dalla presidenza Stet Biagio Agnes, un suo amico per la pelle che però Romano detestava. Agnes fu silurato all’istante. Cementata la loro unione sulle spoglie altrui, i due vispi compari filano da allora felici e contenti. Giancarlo Perna