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 2008  gennaio 24 Giovedì calendario

Il mio sogno per lཿItalia

Il mio sogno per l’Italia. Panorama 24 gennaio 2008. Corrado Passera parla in fretta. A un certo punto si alza e comincia ad andare su e giù per l’ufficio. Si accalora, la voce si fa vibrante. La domanda a questo punto è scontata: le brucia così tanto che il governo abbia gettato nel cestino il suo piano per l’Alitalia preferendo quello dell’Air France? «Non mi brucia che abbiano detto no al piano Air-One da noi sostenuto, mi brucia che si sia deciso di buttare via l’Alitalia, un’impresa strategica per lo sviluppo di un paese come il nostro». Non la gettano: si fanno pagare. Poco, ma si fanno pagare. Tra contanti, azioni e aumento di capitale noi abbiamo offerto circa 1,5 miliardi, i francesi 1,4: anche da questo punto di vista la nostra offerta è migliore. AirOne prevedeva un piano d’investimenti di 4 miliardi di euro in 5 anni (contro uno di solo 2 miliardi nello stesso periodo), avrebbe mantenuto la compagnia di bandiera in Italia e avrebbe completamente rinnovato la flotta con 130 nuovi aerei. Con i francesi, Alitalia non sarà più un’azienda indipendente, ma una divisione di un gruppo che avrà la testa altrove, si continuerà a viaggiare sui vecchi Md 80 per altri 10 anni, Malpensa perderà definitivamente la possibilità di diventare un grande aeroporto e sembra si voglia lasciare al suo destino Az Servizi e i suoi quasi 10 mila dipendenti. Per Air France è una grande operazione, per Alitalia e per l’Italia una resa senza condizioni. Anche in questo caso riciccia la storia dell’italianità: in nome dell’italianità dovremmo continuare a pagare i conti dell’Alitalia? Spesso con false soluzioni nazionalistiche non si sono voluti affrontare problemi industriali, ma non era questo il caso. Se fosse stata accettata l’unica proposta italiana, che fra l’altro aveva il supporto di tre banche internazionali, oltre a quella che dirigo, il risanamento dell’Alitalia sarebbe stato profondo e il suo rilancio molto solido: 700 milioni di riduzioni strutturali nei costi per allineare la nuova Alitalia ai migliori livelli di produttività europea e una crescita prudente e in linea con le previsioni di sviluppo del settore (meno del 5 per cento l’anno). L’Intesa Sanpaolo con l’operazione Alitalia avrebbe risolto anche qualche problemino finanziario dell’AirOne… AirOne non ha problemi finanziari, tanto meno con noi: non era nemmeno nostro cliente. Abbiamo dato credito alla società perché credevamo nel piano che aveva messo a punto per creare la nuova Alitalia. E allora perché se la prende tanto? Perché ha vinto il partito del «non si può». Quello che avrebbe lasciato fallire la Fiat, che non avrebbe risanato le Poste, che avrebbe impedito le fusioni bancarie. Alitalia va male non perché non c’è mercato, ma perché management e azionista di controllo in questi anni non sono stati capaci di risanarla. Alitalia oggi perde su Malpensa perché ha sbagliato il modello operativo. Anche le amministrazioni locali potevano fare di più e di meglio. La compagnia può avere un futuro autonomo e invece si sceglie di rinunciare all’ennesima grande azienda italiana che potrebbe giocarsela in Europa. Perché? Io questo non lo so. Spero che ci sia un ritorno che non conosciamo, una ragion di stato, altrimenti non avrebbe senso. Svendiamo al nostro principale concorrente sul fronte del turismo e di tanti altri settori: una decisione sbagliata, fatta senza confrontare a fondo le alternative, quasi fosse una scelta ideologica. Forse c’è chi teme il potere nelle mani di una sola banca: siete attivi su troppi fronti, ora anche in quello dei treni privati… Noi finanziamo i progetti in cui crediamo, dove necessario anche con capitale di rischio: Fiat, Piaggio, Prada, Nh e decine e decine di casi meno conosciuti. Non c’è gioco di potere, è il mestiere della banca da sempre. Quando non c’è più un ruolo finanziario da svolgere e ci siamo ripagati il nostro investimento noi siamo sempre usciti. Il problema non è di una banca che fa troppo, semmai di una politica che, a volte, fa troppo poco. Ma come: il governo magnifica i propri risultati e lei dice che la politica non si muove? Non minimizzo: sono stati raggiunti obiettivi molto importanti, ma attenzione a non confondere le priorità. Se anche riduciamo il debito, ma non riattiviamo la crescita sostenibile, stiamo mancando la vera emergenza. Abbassare l’indebitamento è un obiettivo di secondo livello rispetto allo sviluppo. Liquida con una battuta il risanamento economico… No, al contrario. In questi ultimi anni è stato fatto uno sforzo eccezionale nel recupero fiscale. Il miglioramento del fabbisogno dello Stato, in sé, è un’ottima notizia, ma se si raggiunge riducendo gli investimenti invece che tagliando strutturalmente le spese correnti non va bene: non solo non facciamo un buon servizio, ma rischiamo di creare un problema più grosso a medio termine. José Luis Zapatero dice che la Spagna ci ha scavalcati, Prodi nega. Lei a chi crede? Il confronto tra i nostri due paesi ci deve dare spunti di riflessione senza complessi. Nominalmente l’Italia ha un reddito pro capite superiore, ma se facciamo i conti col potere d’acquisto, siamo ormai pari, se non indietro. La Spagna cresce il doppio di noi, investe una quota del bilancio pubblico molto superiore alla nostra e ha dimezzato negli ultimi anni il suo debito pubblico. Noi in compenso abbiamo un volume di esportazioni doppio del loro. Entrambi abbiamo un problema di produttività che va risolto, se vogliamo alzare i salari senza indebolire le aziende. Vede nero, anzi nerissimo. No, in questo ufficio vedo ogni giorno moltissime cose che vanno bene. Imprenditori che innovano e crescono sui mercati di tutto il mondo nonostante l’euro forte, molte centinaia di imprese che sono veri e propri leader nei loro settori. Vedo tante iniziative utilissime del terzo settore e per questo abbiamo deciso di creare la prima banca europea dedicata all’impresa sociale: fare banca è anche finanziare 250 asili nido come abbiamo fatto. Ma il mondo del profit e del non-profit fanno fatica a supplire a carenze sempre più vistose di un sistema bloccato e incapace di decidere. Ho capito: anche lei ce l’ha con la politica. C’è una sensazione generale di declino che si sta diffondendo. E dobbiamo reagire prendendone coscienza. Stiamo calando in quasi tutte le graduatorie mondiali: tecnologia, istruzione, infrastrutture, attrattività per gli investimenti esteri… Non basta guardare il pil, perché è un indicatore insufficiente per capire come va l’Italia. E a ogni buon conto, crescere dell’1-1,5 per cento significa che ci si avvia verso il declino. Anche se le energie per crescere di più ci sarebbero, eccome! Il nostro Paese ha alcune delle regioni più povere d’Europa ma anche molte delle più ricche, ospedali dei quali vergognarci ed eccellenze riconosciute in tutto il mondo, tanta disorganizzazione ma anche tanta creatività. Che cosa teme? Con questi bassi tassi di crescita lo stato sociale è a rischio: diritto alla salute, istruzione e previdenza potrebbero non essere garantibili in futuro. Rispettare un parametro sul deficit pubblico diventa una scelta di poco conto quando poi si rischia di pagare un costo così alto sul piano della crescita civile. Ha l’aria indignata. Come si fa a non essere indignati leggendo i giornali di questi giorni? La vicenda di Napoli è uno sconcio che distrugge la credibilità italiana. Le riprese della città sommersa dalla spazzatura hanno fatto il giro del mondo, devastando l’immagine non solo di Napoli ma dell’intero Paese. Pensi soltanto al turismo: quanti turisti pensa che abbiamo perso per la prossima stagione? Tantissimi. Di chi la colpa? Innanzitutto di un sistema decisionale che non funziona, di uno Stato che abdica, di una politica che non è capace di garantire in alcune parti d’Italia nemmeno i bisogni più elementari della gente. Prendersela con la politica è come non prendersela con nessuno… No. Le responsabilità sono sia delle amministrazioni locali sia dei governi centrali che si sono succeduti. Non ci raccontino che non ci sono i soldi, perché il denaro per bruciare le immondizie ci deve essere, altrimenti non c’è titolo per chiedere ai cittadini di pagare le tasse. E nemmeno ci dicano che la gente impedisce la costruzione degli impianti di smaltimento, perché se qualcuno si sdraia sulle strade per bloccare le ruspe va sollevato di peso e spostato. La legge tutela il bene collettivo. Siamo stufi di veder bloccate opere di pubblica utilità perché c’è qualche centinaio di persone che si oppone. Un banchiere arrabbiato non lo si vede tutti i giorni. Sì, sono arrabbiato, perché vedo troppi bei progetti ritardati o bloccati senza ragione, perché vedo che perdiamo tempo su tutto mentre il mondo ci lascia indietro. Nessuno si deve tirare fuori di fronte a questa situazione. Abbiamo il petrolio a 100 dollari, siamo il Paese che più dipende dagli idrocarburi e che facciamo? Non solo non stiamo investendo nei rigassificatori o nel nucleare, ma blocchiamo anche i termovalorizzatori. I termovalorizzatori vanno fatti. Basta con il falso ecologismo, smettiamola con i pregiudizi ideologici, con il luddismo antitecnologico, con la paura per tutto ciò che sa di scientifico. Ogni provincia dovrebbe avere impianti di smaltimento suoi propri. In Lombardia ce ne sono 15 e quello di Brescia è da tanti anni un modello internazionale. una vergogna intollerabile che la Campania non ne abbia ancora di funzionanti e che l’emergenza sia istituzionalizzata da 14 anni! Trovo strano che un banchiere si occupi di immondizia. Forse le cose vanno così male in alcuni campi anche perché ognuno tende a occuparsi solo del proprio settore. Non possiamo più accettare un degrado di tali dimensioni. La politica ha molte responsabilità, ma la politica è solo un pezzo della classe dirigente e il bene collettivo non è monopolio della classe politica né solo sua responsabilità. Come possiamo pensare di condurre un paese senza mai decidere? Ma è possibile impiegare decenni per fare un’autostrada o per completare la Tav o per rinnovare le reti idriche? E il problema dell’energia come pensiamo di risolverlo? Con la lotteria di Capodanno? Qualcuno pensava forse che i rifiuti di Napoli si sarebbero dissolti da soli? Sfiduciato? Sfiduciato no, ma preoccupato sicuramente. La mia sensazione è che l’Italia sia ancora forte, ma non abbia un progetto in cui credere. Non stiamo investendo per far crescere il Paese. Chi ha responsabilità sembra spesso non avere idee e, soprattutto, non avere fiducia nelle possibilità e nelle capacità di questo Paese: e Alitalia è un esempio. A volte politici importanti o addirittura ministri non agiscono come protagonisti che vogliono modificare il corso delle cose, ma come dei semplici osservatori di ciò che accade. Se continuiamo di questo passo, tra poco mi dirà che ha ragione Beppe Grillo. Non condivido per nulla le semplificazioni e le banalizzazioni, ma in democrazia vanno ascoltate anche voci come quella di Grillo. Bollando la contestazione con il termine di antipolitica la classe politica si consola e si assolve. In realtà chi protesta spesso non è contro la politica in sé, ha voglia di partecipare, di credere, ma è deluso e arrabbiato per ciò che succede. La gente si aspetta di più di quello che la politica dà. Gli italiani hanno saputo e sanno sacrificarsi, però ci dev’essere un progetto in cui credere, un’idea di Paese moderno e funzionante per il quale impegnarsi. Scusi, lei andò a votare quando ci furono le primarie del centrosinistra e adesso critica il governo di centrosinistra. Pentito? No, lo rifarei. Votai alle primarie perché mi sembravano una grande novità, un modo per partecipare concretamente. E poi reputavo importante isolare le forze estremiste che si oppongono a tutto. Ma oggi non posso fare a meno di constatare con amarezza che il sistema è ancora bloccato. Da chi? Se siamo in una gabbia le ragioni sono più d’una. C’è un problema di meccanismi decisionali, ma evidentemente anche di classe politica che non li sa aggiustare. La selezione a rovescio, il ricambio inesistente impedisce di portare nei posti chiave le tante persone in gamba che pur ci sarebbero.  una questione generazionale? La bravura non è data solo dall’età e dall’esperienza. Certamente abbiamo una classe dirigente che non facilita il rinnovamento, in troppi campi la selezione non è basata su criteri meritocratici e tutti dobbiamo sentircene un po’ responsabili. Basta vedere come è di nuovo finita la questione dei concorsi universitari: dopo 2 anni di blocco ci risiamo con i concorsi su base locale, che terrà fuori quasi tutti i bravi senza protettore. Se perfino l’università decide di non rispettare le regole del merito, vuol dire che la malattia è alla radice. Dove metterebbe mano per sistemare le cose italiane? Posso parlare innanzitutto del tema che conosco meglio. Bisogna prima di tutto riavviare la crescita economica sostenibile: vanno premiate fiscalmente molto di più le aziende che investono in ricerca, in tecnologia, in innovazione. Contemporaneamente dobbiamo risolvere il paradosso dei redditi da lavoro bassi e del costo del lavoro alto attraverso la defiscalizzazione dei premi di produttività e favorendo in ogni modo l’innalzamento del tasso di occupazione femminile. Infine dobbiamo riaccelerare con le infrastrutture: le autostrade, per esempio, sono intasate e non si possono impiegare decenni per costruirne di nuove. Bisogna fare in fretta se si vuole dare un segno di cambiamento. Basta questo per assicurare sviluppo nel medio periodo? Ovviamente no e qui ripeto cose che da molto tempo diciamo in tanti. Per esempio, investire in istruzione per mettere in condizione i giovani di entrare presto nel mondo del lavoro che è del tutto cambiato, rivedere completamente la macchina della giustizia che non assicura più il diritto a nessuno, rispondere alla richiesta di sicurezza della gente. C’è poi la sanità, che è un grande problema, ma anche una grande opportunità. La prima cosa da fare? Sbloccare il sistema decisionale, stabilire chi fa cosa, chi risponde di cosa ai vari livelli. Anche una legge elettorale che permetta di governare fa parte di questo capitolo. Lo sa che il suo sembra un programma politico? A me sembra un discorso da cittadino. Da manager che ha avuto la fortuna di toccare con mano in tante occasioni che «se si vuole si può», che ha oggi la fortuna di dirigere una grande banca che, facendo il suo mestiere, si propone di contribuire alla crescita del proprio paese. MAURIZIO BELPIETRO