La Stampa 21 gennaio 2008, Gianni Ranieri, 21 gennaio 2008
Loi, fine di un gladiatore. La Stampa 21 gennaio 2008. Prima che s’innamorasse delle slot machines di Las Vegas, prima che si caricasse le spalle e le braccia dei peggiori tatuaggi pescati nelle più rinomate galere americane, prima che i suoi campioni si vestissero come pirati delle Molucche e salissero sul ring come le stelle del varietà salivano e scendevano le scale delle Follie di Ziegfeld, il pugilato visse una sua lunga epoca di glorie senza fronzoli, di celebrità sudata
Loi, fine di un gladiatore. La Stampa 21 gennaio 2008. Prima che s’innamorasse delle slot machines di Las Vegas, prima che si caricasse le spalle e le braccia dei peggiori tatuaggi pescati nelle più rinomate galere americane, prima che i suoi campioni si vestissero come pirati delle Molucche e salissero sul ring come le stelle del varietà salivano e scendevano le scale delle Follie di Ziegfeld, il pugilato visse una sua lunga epoca di glorie senza fronzoli, di celebrità sudata. Anche le truffe che di tanto in tanto lo inquinavano, costavano dolori e sangue. Non era mai buffo il pugilato, nessuna grettezza fumettistica. Mai. Duilio Loi era un pugile di quel tempo. Un grande pugile che giunse alla conquista del titolo di campione d’Europa e di campione del mondo percorrendo una strada che soltanto chi è imparentato con una accanita fiducia in se stesso può riuscire a percorrere. Una volta, alla fine d’un combattimento feroce contro Orlando Zulueta, a Milano, il 21 gennaio del 1956, disse: «Mi ha fatto bene questa festa di pugni. Ho capito che so vederci chiaro anche attraverso il sangue». Era una Milano inobliabile e irripetibile quella in cui abitavano le più audaci battaglie di Duilio Loi, le battaglie del Vigorelli e di San Siro. Il pubblico vedeva in Loi, nelle sue raffiche di ganci e montanti, nella sua cattiveria leale, qualcosa che andava al di là d’un mero assalto al verdetto. C’era il bisogno, compresso da anni di attesa, di incontrare il campione che liberasse il grido, che innalzasse lo spirito, che ricucisse i brandelli di vecchie speranze. Duilio era uno dei mille fuochi che si riaccendevano in tutta l’Italia. Milano, allora, brillava, vibrava, donava. Loi era amato come Pippo Di Stefano, il Vigorelli e San Siro s’affratellavano, nel cuore dei milanesi, alla Scala. Là, un titolo europeo e un titolo mondiale conquistato da uomini costruiti col cemento armato; qui, la Traviata della Callas, di Giulini e Visconti. Era lecito perdere la testa per un campione che faceva cantare i pugni, così come era consentito abbandonarsi non al semplice applauso ma a un tifo da stadio per un soprano che implorava «Amami, Alfredo!». Duilio Loi, triestino di mamma triestina e padre sardo, aveva messo su un ristorante. Metter su un ristorante costituiva una scelta da pollice alzato in quegli anni milanesi. E proprio nel suo ristorante di Via Volta recitò l’addio al pugilato. Disse: «Al mio manager e a quanti hanno operato al suo fianco, un grazie di cuore. Ai giornalisti» e fece una pausa per vedere che faccia avevano i giornalisti che lo stavano ascoltando in quel momento tristissimo, «Ai giornalisti la mia riconoscenza e la mia stima». Poi allungò il destro verso di loro, chinò la testa e finalmente permise a se stesso di piangere. Il titolo europeo dei pesi leggeri, il 6 febbraio del 1954 a Milano battendo il danese Joergen Johansen; il titolo mondiale dei superleggeri, il primo settembre del 1960 a Milano battendo il portoricano Carlos Ortiz. Vette toccate da Loi durante una parata di 126 combattimenti, 115 vinti, otto pareggiati, tre persi, nel corso d’una avventura di 14 anni. Un titolo europeo oggi è conquista da ridere, ci vuol altro. Non basta neppure un mondiale, ci vorrebbe un titolo universale, campione della Terra, di Marte e di Giove. Negli anni delle belle e dure fatiche un titolo di campione d’Italia lo si portava come una gardenia all’occhiello. I campioni d’Italia avevano il viso di Gino Bondavalli, Ernesto Formenti, Giovanni Manca, Tiberio Mitri, Nino Benvenuti, e Duilio Loi naturalmente. Gente che i tatuaggi non se li incideva sui muscoli, li disegnava sui connotati degli avversari. Duilio Loi era in tono con la sua epoca. Gli piaceva, e tanto, indossare l’ipotetico manto di primadonna, benchè parlare di primedonne nella boxe faccia sorridere. Ma lui ci teneva a non avere intorno troppe luci accese. Gli bastava la sua, era un guerriero con il vezzo del riflettore addosso. Ognuno ha le sue noie, i suoi sogni cattivi, le sue bestie nere. Le bestie nere di Loi erano Vecchiatto, Visintin e Garbelli. Con questi tre penava, ma quelle pene gli arricchivano il carattere, gli tempravano l’animo. Nel gennaio del 2005 gli americani che se ne inventano sempre delle belle, lo ammisero nella Hall of Fame, gli donarono l’alloro che si dona agli indimenticabili. Ma Duilio, che tirava avanti con un vitalizio dello Stato dopo aver campato sino al 2000 con una pensione di 600 mila lire, stava già dimenticando se stesso, il Vigorelli, San Siro, Milano, Eddie Perkins, il suo ultimo tremendo avversario. «Non voglio piangere» ha detto la figlia, Bonaria, «Voglio pensare al bello che ci hai fatto vivere, papà». Il modo più coraggioso e tenero che il figlio di un gladiatore possa scegliere per chiudere il sipario. GIANNI RANIERI