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 2008  gennaio 21 Lunedì calendario

OBBLIGO DELL’AZIONE PENALE E DIVISIONE DELLE CARRIERE

Corriere della sera 21 gennaio 2008.
Non sono un esperto, ma credo proprio che, tolta l’obbligatorietà dell’azione penale, la supervisione o titolarità non possa che passare, in qualche modo, all’esecutivo (oppure a procuratori da esso dipendenti). Visto il livello attuale della classe politica italiana (i costituenti non credo che avrebbero mai potuto immaginare la situazione di oggi) temo davvero che possa essere un rimedio peggiore del male. Personalmente, mi sembra davvero un problema di checks and balance (pesi e contrappesi) e di maggiori controlli da parte di un Consiglio superiore della magistratura riformato (una cosa rispetto alla quale, non casualmente, la magistratura ha sempre fatto muro).
Giovanni Scirocco
Milano
Caro Scirocco,
a sua lettera trae spunto da un editoriale del L
Corriere in cui ho definito l’«obbligatorietà dell’azione penale» una «formula ipocrita» e ho aggiunto che la riforma della giustizia comincia dalla sua revisione. Prima di rispondere alla sua lettera aggiungo per i lettori che questa espressione riassume sinteticamente l’articolo 128 della Costituzione in cui è detto che «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Quando l’articolo venne in discussione nel Comitato dei 75 dell’Assemblea Costituente, Giovanni Leone disse: «Occorre che noi riaffermiamo nella Carta costituzionale questo che è un principio fondamentale dello Stato moderno: che il pubblico ministero non può esercitare una attività discrezionale circa il proponimento dell’azione penale (...). Il pubblico ministero, in altri termini, quando viene a cognizione della notitia criminis, non ha un potere discrezionale, ma deve investire l’organo della giurisdizione dell’esame del contenuto dell’azione penale».
 accaduto esattamente il contrario. Una norma adottata per evitare che il magistrato inquirente agisse discrezionalmente o si conformasse alle sollecitazioni del ministro di Grazia e Giustizia, lo ha autorizzato di fatto a scegliere le azioni che gli paiono maggiormente conformi alle sue motivazioni ideali o alle sue ambizioni mediatiche. E ha contribuito alla lentezza della giustizia perché le questioni prescelte sono generalmente quelle che richiedono indagini più lunghe, difficili e spesso inconcludenti.
Lei sostiene, caro Scirocco, che l’abolizione dell’obbligatorietà si risolverebbe di fatto nel ritorno al passato quando il guardasigilli poteva chiedere al magistrato inquirente di aprire o chiudere un dossier. E sostiene che la soluzione del problema potrebbe consistere nell’affidare al Consiglio superiore della magistratura un’autorità di vigilanza e d’indirizzo. Si può immaginare, ad esempio, che il Csm sia autorizzato a preparare per le procure ogni anno una «lista delle priorità» in cui vengano indicate le azioni penali su cui ogni procura dovrebbe concentrare la propria attenzione. Ma le correnti di cui si compone l’Anm (Associazione nazionale magistrati) hanno trasformato il Consiglio in una sorta di camera corporativa, poco adatta a esercitare il ruolo dell’arbitro e del supervisore. E ho l’impressione, d’altro canto, che la «lista delle priorità» sarebbe una continua occasione di polemiche e discussioni.
Accettiamo quindi la discrezionalità come un male necessario (qualche scelta, fra le tante azioni possibili, sarà pur sempre necessaria), ma cerchiamo di evitare che essa venga esercitata da persone che appartengono alla stessa carriera dei giudici e che vogliono essere percepiti esclusivamente come custodi della giustizia. So che ogni tentativo di separare la carriera degli inquirenti da quella dei giudicanti si è sempre scontrata con le resistenze dell’Ordine giudiziario. Ma continuo a pensare che il procuratore sia un avvocato dell’accusa e che la riforma della giustizia sarà tanto più efficace quanto più rapidamente il Parlamento approverà una legge da cui questa distinzione emerga con chiarezza.
Sergio Romano