La Stampa 16 gennaio 2008, Gabriele Ferraris, 16 gennaio 2008
Fui io a suggerire. La Stampa 16 gennaio 2008. Carlo Callieri, nel 1980, aveva 39 anni. Era direttore del Personale e Organizzazione di Fiat Auto
Fui io a suggerire. La Stampa 16 gennaio 2008. Carlo Callieri, nel 1980, aveva 39 anni. Era direttore del Personale e Organizzazione di Fiat Auto. Il «generale» incaricato di riportare la fabbrica sotto controllo. Ci riuscì, usando il pugno di ferro, senza preoccuparsi del guanto di velluto. Oggi, tra le molte cariche, Callieri è presidente del Centro Conservazione e Restauro della Reggia di Venaria. Incontrarlo lì, in un ufficio nella rinata Residenza sabauda, è metafora della trasmutazione di Torino. Nel 1980 Callieri sedeva in un ben diverso ufficio, in una città sospesa ai destini della grande industria in crisi. Oggi lavora per recuperare le bellezze d’arte di una città capitale di cultura, meta di turismo internazionale. Le cose cambiano. Ma, appena lo incontri, giovanile nei suoi 67 anni, manager fin nelle ossa, ti tornano alla mente i 35 giorni di quell’autunno del 1980, i picchetti a Mirafiori, la lunga lotta contro la mannaia degli esuberi. E la Marcia che mandò tutti a casa. S’è detto e scritto che fu organizzata dalla Fiat. «Falso. La Marcia dei Quarantamila nasce per auto-organizzazione: furono i capi Fiat, preoccupati per la situazione, a deciderla. A dire il vero, il progetto iniziale era un incontro al Teatro Nuovo: fui io a suggerire il corteo, dissi che mi sembrava stupido chiudersi lì dentro, dove la città non li avrebbe visti. Loro erano titubanti, temevano che non venisse gente. Li convinsi: a Torino i capi Fiat erano diecimila, bastava un po’ di passaparola e sarebbe arrivata una folla. Così fu». Immagino che la Fiat ci contasse. «Non tutti. Romiti, per esempio, era scettico. Lui e Ghidella stavano trattando con i sindacati la questione degli esuberi, a Roma, e si andava verso un accordo che per l’azienda sarebbe stato perdente. A Ghidella, soprattutto, non piaceva: così mi riferiva Giorgio Benvenuto, che era amico mio e mi teneva informato. Però volevano chiudere: l’incontro decisivo era fissato per un lunedì, e io proposi di rinviarlo di un giorno, di aspettare il martedì, perché quel martedì ci sarebbe stata la marcia. Romiti non era convinto. Allora mi telefona l’Avvocato Agnelli e mi domanda: ”Si sente sicuro di questa cosa?”. ”Avvocato, conosco i capi Fiat”, rispondo. ”Va bene”, taglia corto lui, ”allora rinviamo”. Così, quel martedì andammo a Roma per incontrare i sindacati all’hotel Boston: al secondo piano Romiti e Ghidella discutevano con i segretari generali, e al piano di sotto c’eravamo noi, i ”ragazzi”: Cesare Annibaldi, Paolo Panzani, ed io. Aspettavamo. A un certo punto i fax cominciano ad arrivare a raffica, con le notizie di ciò che stava capitando a Torino. Un crescendo rossiniano. Noi salivamo a portare i fax, e loro, i sindacalisti, alla fine gettarono la spugna, Lama disse a Romiti: ”Preparate il testo dell’accordo”. L’accordo era già scritto, l’aveva in tasca Panzani. Lo portammo, firmarono. Avevamo vinto». Fino a quel momento, che clima si respirava in fabbrica? «Il 1980 è il culmine di una parabola cominciata dieci anni prima e che si smorza nei dieci anni successivi: la contestazione, il rifiuto del merito, l’egualitarismo spinto che caratterizzò il Sessantotto italiano. A Mirafiori allora c’erano cinquantamila dipendenti: almeno il 25 per cento era in eccesso, la produttività era ridotta ai minimi termini. In quegli anni, però, gli operai erano cambiati: erano entrati giovani e donne, ma i politicizzati erano una minoranza. La massa, quando partivano i cortei interni, ne approfittavano per stendersi al sole nei prati davanti alla palazzina degli uffici, io li vedevo, stavano lì, amoreggiavano... La situazione era pesante, ma la massa la viveva con distacco: e il sindacato non se ne rendeva conto. Si andava avanti con i vecchi riti del Sessantotto, ricalcati stancamente. E guardi, non soltanto nei metodi di lotta: per dire, anche vicende come quella raccontata dal film, amori che nel Sessantotto avevano una loro spontaneità, ormai si ripetevano quasi per inerzia... Questo distacco fu una delle cause della debolezza e della conseguente sconfitta sindacale, insieme con la rottura con la città causata dalle manifestazioni di piazza. L’anno prima c’era stato un contratto molto duro. I cortei, fino ad allora interni, invasero le strade di Torino: traffico bloccato, e chi protestava le prendeva». Quale fu il momento preciso in cui la Fiat disse «basta»? «Nel ”79 ero a Roma, distaccato al ministero del Lavoro. Umberto Agnelli mi chiamò chiedendomi di rientrare in Fiat Auto dove si preparava il cambio della direzione generale. Fu quello il momento del ”basta”. Poi ci vollero un paio d’anni. Prima di tutto dovemmo fare una diagnosi della gestione della fabbrica, definire un rapporto non più torbido con il sindacato: anche tra la dirigenza c’erano ampie zone di compromissione, per paura, per opportunismo, o semplicemente perché qualcuno badava solo ai fatti suoi. Poi vennero i licenziamenti dei 61 operai che ritenevamo vicini al terrorismo, o comunque a frange violente; fu una scelta radicale ma necessaria. Infiltrazioni terroristiche in fabbrica c’erano, e robuste: contiguità, di sicuro. Non dico che i 61 licenziati fossero tutti terroristi. Ma fu un segnale forte. Dicemmo ”basta”». Lei era, in quel momento, uno degli uomini più odiati di Torino. Aveva paura? «Paura, mai. Molta incoscienza, forse: facevo una vita quasi normale, nel weekend andavo a sciare, o a fare la spesa, senza scorta. I miei figli frequentavano la scuola pubblica. Sì, avevo la sorveglianza sotto casa, e giravo con la pistola in tasca. Ma paura, no. Mai avuta». Gabriele Ferraris