La Repubblica 17 gennaio 2008, Gunther Grass, 17 gennaio 2008
Perchè abbiamo bisogno di un nuovo ’68. La Repubblica 17 gennaio 2008. Non è soggetto ad alcun dogma
Perchè abbiamo bisogno di un nuovo ’68. La Repubblica 17 gennaio 2008. Non è soggetto ad alcun dogma. Il suo obiettivo è il percorso. Ha bisogno di costanti revisioni. Sì: i socialisti democratici sono dei revisionisti provetti. Solo grazie a questa qualità il socialismo democratico è potuto sopravvivere ai divieti e alle persecuzioni delle dittature. La storia del partito socialdemocratico, il più vecchio partito democratico tedesco, dimostra tale potere di sopravvivenza. E´ un motivo più che sufficiente per trarre forza da questa tradizione gravida di esperienza e affrontare le molteplici sfide del XXI secolo con rinnovato vigore. Sono sfide multiformi: al termine del secolo scorso è si è potuto porre fine alla divisione della Germania, alla spaccatura dell´Europa, almeno per quanto riguarda la scomparsa delle frontiere impermeabili. Ma all´unità territoriale della Germania manca il legame sociale, dunque l´unione della società basata sul riconoscimento reciproco; e l´Europa diventata più grande non deve scadere nel semplice ampliamento di mercato, ma è piuttosto auspicabile un´Europa che sulle basi della propria forza commerciale si impegni in una carta sociale comune e che non si irrigidisca all´esterno diventando una fortezza. All´inizio del nuovo secolo si sono presentati come non più ignorabili anche i cambiamenti globali, già da tempo indicati, purtroppo inutilmente, come una minaccia. C´è l´evoluzione demografica che ha tendenze opposte: da una parte la popolazione mondiale cresce minacciosamente, dall´altra si registra la mancanza di nuove leve nei paesi industriali europei, soprattutto in Germania. Parallelamente i danni del cambiamento climatico causato da sostanze tossiche e le sue conseguenze globali non possono essere più negati neppure da ignoranti cronici. A un numero crescente di crisi e zone di crisi in Medio Oriente e in Africa corrisponde il debole atteggiamento delle democrazie occidentali, che evocano la minaccia del terrorismo come nemico esterno, ma devono la crescente perdita di credibilità alle propria autonoma decadenza. L´industria farmaceutica, quella automobilistica, o le banche, hanno un potere che non è legittimato né dalla costituzione, né dal popolo sovrano, e che determina sempre di più la politica sino all´attività legislativa. Sono loro che nello stato puzzano di marcio. Loro, non eletti, ma armati del potere del capitale, incarnano il più acerrimo nemico della democrazia. Le lobby non conoscono limiti. Gli asociali salari dei manager e la corruzione imperversante ovunque sono i fenomeni che accompagnano il lobbismo. Visti questi mali evidenti, in parte supportati da media non indipendenti, non c´è da stupirsi se sempre meno cittadini sono pronti a fare uso del proprio diritto di voto, dato che la loro supposizione sempre più frequente, «tanto quello che succede o non succede nella politica non viene stabilito in parlamento ma ai piani alti», trova conferma giorno dopo giorno. Così la democrazia si trasforma in farsa. Così lo stato afferma apertamente la propria impotenza. Così il collasso della struttura democratica avviene liberamente dal proprio interno. Eppure la crescente perdita di credibilità della democrazia parlamentare viene accettata come un destino ineluttabile da tutti i partiti, anche da quello socialdemocratico, che dovrebbe essere consapevole che solo in una democrazia fedele alla costituzione si può realizzare la giustizia sociale. Gli appartenenti alla mia generazione, che hanno vissuto la fine della guerra da bambini invecchiati precocemente, io ero diciassettenne, sono diventati adulti con la nostra democrazia. Ci sono state impartite delle lezioni pesanti. La democrazia che ci è stata prescritta dai vincitori doveva vivere di vita propria. Ci siamo messi al lavoro sulle macerie, appesantiti dalla colpa e dall´infamia persistente. Doveva nascere qualcosa di nuovo. Progresso, stagnazione e recessione hanno marcato un lungo cammino. Il mio coinvolgimento nella politica in quanto scrittore è stato preparato da una lunga permanenza in Francia, durante la seconda metà degli anni Cinquanta. Ma ho preso partito solo all´inizio degli anni Sessanta, tornato a Berlino, quando fu costruito il muro e il sindaco Willy Brandt si candidò per la prima volta alla carica di Cancelliere. Abbandonai pulpito e manoscritto, lo scrittore si determinò in quanto cittadino che voleva percepire i suoi diritti democratici come doveri. Devo molto a Willy Brandt. Da lui si poteva imparare che l´agire pragmatico, dettato dalle necessità del presente, e lo sguardo politico, il riconoscere i problemi futuri, non si escludono a vicenda. La sua politica tedesca dei "piccoli passi" si affermò con successi parziali, rese più permeabile la frontiera in mezzo al Paese diviso e aprì la strada alla successiva riunificazione. Nel bel mezzo della guerra fredda, nonostante l´ostracismo dei suoi avversari politici, favorì la distensione ponendo le basi per il futuro. Prima di tutti gli altri che si sono resi meritevoli nel persistente obiettivo della riunificazione tedesca, dovrebbe essere citato lui, il socialista democratico Willy Brandt. Dopo aver lasciato la carica di cancelliere ha favorito una politica globale efficace e rivolta al futuro come nessun altro politico. Parlo del Rapporto Nord-sud, che ha redatto a metà degli anni ´70 su richiesta dell´Onu. All´epoca la presa di coscienza di una crescente discrepanza tra un nord ricco e un sud povero provocava solo qualche cortese cenno con la testa. Ma chi apre oggi quel rapporto si accorge che Willy Brandt già all´epoca chiamava per nome quelle che oggi sono le devastanti conseguenze delle occasioni perse di allora. Arrivo al mio prossimo appunto: il compito dei socialdemocratici tedeschi è riconoscere come linea guida per il proprio agire politico la prospettiva introdotta da Willy Brandt. Ciò significa che chi vuole arginare il terrorismo e infine eliminarlo dovrebbe prendere in mano il rapporto nord-sud e riconoscere nella povertà crescente, nella fame, nel dominio e nelle umiliazioni post-coloniali, le cause della virulenta violenza di oggi e del terrore che non si può sconfiggere solo con la contro-violenza militare. Il discorso che Willy Brandt, ancora in carica, tenne alle Nazioni Unite, terminò con la frase: «Anche la fame è guerra!». Io c´ero, quando parlò davanti all´assemblea generale a New York. Il suo grido fu soffocato dagli applausi. Di più non accadde. Infine mi si impone un ultimo appunto. L´anno 2008, ancora giovane, ci darà la possibilità di riflettere sulle proteste studentesche di 40 anni fa. In molti media la resa dei conti con i sessantottini è già cominciata. Alcuni, che ai tempi si proclamavano di estrema sinistra, sono diventati cassa di risonanza della destra. No, la protesta della gioventù negli anni ´67 e ´68 era attesa, necessaria, e ha liberato la repubblica federale dal suo irrigidimento restauratore. Allora accompagnai la protesta con simpatia, ma anche criticando la retorica pseudo-rivoluzionaria di alcuni suoi portavoce. Quella sollevazione, che l´emergenza educativa in scuole e università e la lontana guerra del Vietnam avevano acceso in tutto il paese, non poteva essere placata dalle manganellate della polizia. In segno di sfida si chiedevano risposte politiche. Non pochi studenti si trasformarono in socialdemocratici. La Spd si rafforzò. L´anno successivo il suo segretario poté decidere da Cancelliere le linee guida della politica. Considerata la situazione attuale e in vista del futuro, gravido di crisi, una nuova protesta giovanile, da non reprimere con i manganelli, è urgente e necessaria. Anche la Spd potrebbe trarre vantaggio da una simile sfida. Gunter Grass (Traduzione di Thomas Paggini)