La Repubblica 17 gennaio 2008, Franco Cordero, 17 gennaio 2008
COS FIN
Così finì. La Repubblica 17 gennaio 2008. Lingua adamitica, peccato originale, confusione babelica sono temi d´una romanticheria regressiva. Vediamo gli antipodi, politicamente parlando. Joseph de Maistre (Chambéry 1753-Torino 1821) è un borghese nobilitato dagli uffici: François-Xavier siede dal 1740 nel Senato savoiardo (una delle quattro corti supreme subalpine, sul modello dei parlamenti francesi); Joseph eredita la carica; appena adolescente, sfilava con i Penitenti Neri, confortatori dei condannati a morte; massone nella Loggia dei «Trois Mortiers», passa alla «Parfaite Sincérité», 1778; l´anno seguente, sotto il nome esoterico "a Floribus", è uno dei quattro superiori incogniti nel collegio savoiardo, cultore d´occultismi sepolti nel testo biblico. La Rivoluzione gl´ispira una crociata teocratico-antimodernista. La corte sabauda se ne libera spedendolo a Pietroburgo con pochi soldi e quando torna, caduto Napoleone, solo i gesuiti lo pigliano sul serio. Nelle Soirées de Saint-Pétersbourg (postume, Paris 1821) disserta sul «governo temporale della Provvidenza»: ogni sventura è castigo; non esistono malattie le cui cause siano soltanto naturali; il boia, figura mistica, garantisce l´ordine divino; i selvaggi sono relitto subumano d´una caduta preistorica, et similia. Figura ieratica, loquela estrosa, paradossi, gesto apocalittico, insomma classico profeta da salotto su fondo paranoide: ha un rabbioso bisogno d´autorità e dogmi; è così molestamente reazionario da disturbare persino i codini torinesi («Messieurs, la terre tremble et vous voulez bâtir»: il terremoto era un´innocua protesta studentesca); invoca censure inesorabili; proclama l´infallibilità papale mezzo secolo prima del Concilio Vaticano. S´è definito nel secondo colloquio: «plenus sum sermonibus»; crede d´avere citato Giobbe; no, era Eliu, il quarto contraddittore, un giovane rampante, esperto dei riti assembleari, le cui frasi scoppiano nelle budella; «coarctat me spiritus uterus mei» (Giobbe, 22.18s.). Adamo dispone d´una lingua perfetta: l´attestano cognizioni che i successori hanno perso, e un sorprendente talento d´onomaturgo; "cadaver", ad esempio, combina le prime sillabe della terna "carno data vermibus". Dio sa dove abbia scovato questo rebus. L´uomo parla ab origine, innate essendo idee e parola: i cattivi pensatori lo negano perché hanno paura; e affiora il Leitmotiv demaistriano, che il mondo sia teofobo, quindi malato. Quarto colloquio: studiando la testa dell´odiato Voltaire, s´infuria; vuol dedicargli una statua eretta dal boia. Non è compagnia raccomandabile Monsieur A Floribus, teosofo, massone, ambasciatore stralunato, papista: ogni tanto riappare nel circo reazionario; il povero Baudelaire se l´era eletto maître à penser. Walter Benjamin (Berlino 1892-Port Bou 1940) impersona il chierico vagante e sofferente, naturalmente disadatto ai quadri sociali: sebbene abbia rare qualità, va male qualunque cosa tenti, matrimonio, carriera accademica, libera professione intellettuale; a fortiori, non s´integra nella chiesa comunista. Viveva precariamente in Francia. Hitler l´ha invasa: vuol imbarcarsi dalla Spagna, diretto agli Usa; un alcalde lo ferma sul confine, con altri, i quali passeranno; lui no, s´è suicidato. A proposito d´Adamo e relativa lingua, lascia un manoscritto giovanile i cui flussi verbali non diventano quasi mai concetto: bagliori intuitivi innescano immagini inarticolate; pensa in lampi, nella misura dell´aforisma. Questa prosa malriuscita tocca corde comuni al savoiardo: Adamo fonda la filosofia ascoltando l´identità d´idea e nome; nella piatta «teoria borghese» le parole sono segni; eh no, imponendo i nomi, l´uomo completa l´opera cosmogonica; ogni cosa o fatto è lingua, e via seguitando attraverso faticose catene verbali spesso vuote, con qualche scorcio poetico; ad esempio, che fuori dello stato paradisiaco, la natura diventi muta, quindi triste, e l´inverso, triste, perciò muta. A proposito d´allegoria (Benjamin se ne occupa nelle Origini del dramma tedesco), la cosiddetta caduta non sminuisce i lumi intellettuali, semmai l´inverso. L´animale umano doveva uscire dal torpido benessere paradisiaco: stimolato dai bisogni, compie exploits paragonabili alle cosmogonie; s´avventura nell´astratto; costruisce meraviglie semiotiche, dal geroglifico ai simboli diafani d´una lingua delle pure forme, così acuto da decomporre i manufatti mentali scovando sedimenti d´una mente prelogica; quanti, fastosi, ne tramanda il platonismo sopravvissuto al bagno scientifico aristotelico. I maestri nominalisti dell´XI secolo li dissolvono. L´ultima scoperta choquante è che la logica sia solo affare combinatorio: duro colpo alle cosiddette strutture dell´Essere e scandalo nel tempio ma, praticata come clinica linguistica (Wittgenstein, Tractatus, 4.0031), la filosofia diventa utile; fissa i confini del pensabile, smaschera nonsensi, taglia premesse superflue (rasoio d´Occam), impone forme chiare all´esprimibile (ivi, 4.113-16). Sull´ineffabile l´unico partito pulito è tacere (ivi, prop. 7). L´universo dogmatico presuppone verità forse mutevoli nel tempo ma assolute finché durino. Varie le fonti: concilio, papa definiens ex cathedra, Politburo, Iosef Stalin, e via seguitando, secondo le chiese; l´oracolo vincola i fedeli; i dissensi, anche inespressi, costituiscono eresia, variamente punita, dal biasimo al bando, rogo o pallottola nella nuca. Logomachie intese al potere. Gli effetti pesano: discorso storpio, ossequio labiale, fumisterie, pragmatismo cinico; disinnescando gl´indicatori del vero-falso, il sistema alleva lotofagi (Odissea, IX, 84-104); nel sopore intellettuale bevono brodo dogmatico e intrattengono pensieri contraddittori senza rendersene conto; quando stimoli esterni inneschino curiosità pericolose, scattano segnali d´allarme (Orwell li chiama «crimestop»). Le dispute sul governo divino offrono esempi. Sant´Agostino sbaraglia Pelagio, campione d´umanesimo cristiano: la sua dottrina diventa dogma, non tollerabile dalle anime tenere; e successori politicanti (vedi Prospero d´Aquitania) la diluiscono. Se la partita dipende da noi, gli eretici pestiferi sono san Paolo e il vescovo d´Ippona, Doctor gratiae: l´uomo è padrone delle sue sorti o pedina d´un gioco divino talvolta atroce; aut aut, ma i discorsi netti danno sui nervi. San Tommaso, determinista, tira ipocritamente in ballo una «gratia sufficiens» purché cooperiamo. I canoni tridentini, sesta sessione, condannano un partito e l´opposto (l´equivalente è dire «piove, quindi non piove»). Solo Calvino parla chiaro rompendo l´ultimo velo. Padre Luis Molina Societatis Iesu difende un finto libero arbitrio (Dio aiuta tutti ma gradua i soccorsi e combina le circostanze secondo calcoli suoi, indipendenti dalla buona volontà umana, sicché spesso l´aiuto non basta). L´affare giansenista è una sagra della slealtà: vituperano i calvinisti mutuandone la dottrina; Roma condanna l´Augustinus, bibbia del movimento, senza smentire l´omonimo santo; fuori d´ogni decoro Port-Royal nega che il libro contenga le massime de quibus; anche Pascal figura male nel torneo del finto pensiero (Ecrits sur la grâce», 1656-57). Insomma, barano tutti. Invano Roma tenta d´imporre il silenzio: senza permesso del Sant´Ufficio nessuno pubblichi opuscoli o libri in materia (Paolo V, 1 dicembre 1611); Urbano VIII commina pene ai trasgressori, dalla perdita della licentia docendi alla scomunica (22 maggio 1625 e 1 agosto 1641). La faida séguita, rabbiosamente confusa, finché gli spiriti animali s´affievoliscono: l´argomento non interessa più; i contendenti se ne dimenticano. Capita nel governo ecclesiocratico dei cervelli. L´attualità ripresenta questioni efferatamente discusse 16 secoli fa. Sant´Agostino muove guerra al monaco britanno Morgan, in greco Pelagio, colpevole d´essere diverso: mente latina, aliena da misteri, magìa, fantasie fosche; gli ripugna l´intimismo liquido delle Confessioni; non è animal ecclesiasticum; scomodamente serio, professa un impolitico e trasparente radicalismo evangelico; rifiuta l´idea tribale del peccato ereditario; postula valori indipendenti dai decreti divini. Era una quarta guerra punica, stravinta dal vescovo d´Ippona. Papa Zosimo aveva assolto l´eretico guastafeste: l´Africa gli salta alla gola; Alipio, emissario d´Agostino, intriga nella corte ravennate (portava 40 cavalli numidi in dono); l´Impero fornisce il brachium saeculare (editto 30 aprile 418); costituisce delitto pensare a quel modo; chi non denuncia i delinquenti rischia confisca dei beni e deportazione. L´indomani 214 vescovi d´un concilio cartaginese scagliano nove anatemi. I primi tre fulminano chi nella morte vede un evento fisiologico (no, è castigo): o solleva dubbi sulla lue adamitica; o sottrae all´inferno i «parvuli» morti senza battesimo, ma rivolta lo stomaco il guignol dei neonati pasto diabolico, sicché quest´anatema non figura nelle raccolte romane o, se vi entra, viene presto escluso; lo ignorano già i Capitolari celestinensi databili V secolo. Sentiamo sant´Agostino: «iustissime» assemblee vescovili e sede apostolica condannano i pelagiani, così empi da concedere un luogo «quietis et salutis» ai bambini macchiati del peccato originale; è opinione «folle» che non solo sfuggano all´inferno ma godano d´una felicità naturale e, finito il mondo, siano addirittura ammessi nel Regno (Fiabe d´entropia, 309). I canoni quarto, quinto, sesto codificano il concetto della grazia come impulso irresistibile. Gli ultimi tre negano che l´uomo possa astenersi dal peccare: più o meno peccano tutti, donde un tranquillo scioglimento lassistico; inutile tentare sforzi impossibili. Pelagio chiedeva troppo. Ha vinto l´Africa, vittoria equivoca. Morgan resta abominevole eresiarca; ma barlumi delle sue idee penetrano nel dogma alimentando un circuito «double think». Torniamo ai «parvuli» sciaguratamente morti senza battesimo. Ancora Gregorio da Rimini, generale dell´Ordine agostiniano, anno 1357, li manda all´inferno guadagnandosi l´epiteto tortor parvulorum. L´opinione teologale mite riscopre la via d´uscita d´una felicità naturale (manca la visio Dei). I testi tridentini suonano perentori: il battesimo è necessario «ad vitam aeternam consequendam»; i «parvuli» hanno in corpo un peccato congenito lavabile solo nel sacramento (Sessione V, 17 giugno 1546, Denzinger, ed. cit., 281ss., 787-92). Li avevamo lasciati nel limbo, col dubbio d´un trattamento iniquo, non essendo colpa essere morti ante partum o magari mentre li portavano al battistero. Tal Gabriele Gualdo, sacrae Theologiae professor, dedica all´argomento una «dissertatio medico-theologica», «Baptisma puerorum in uteris existentium iterum assertum»: dov´è scritto che il battesimo presupponga l´infans visibile?; «embryo habens animam rationalem potest baptizari» mediante aspersione del ventre materno (Patavii, 1712, apud Fratres Sardi). Assunto molto ragionevole ma 295 anni dopo non esiste più un limbo dei bambini, anzi non era mai esistito: vanno tutti nel Regno dei Cieli, d´emblée, assicurano autorevolissime fonti; sul quale punto esitava persino Morgan, eresiarca negatore del peccato ereditario. Niente da obiettare nel merito, anzi benvenuto ogni passo sulla via d´una religione spirituale (non lo era legare le sorti ultraterrene a gocce d´acqua e parole rituali), purché ripensiamo tutto: quanto valgano le cosiddette verità dogmatiche, se i dogmi invecchiando appassiscono. Non sono questioni da rimuovere sotto banco né suonano bene gli anatemi moderni contro i relativisti. "Relativismo" significa cautela, intelletto onesto, umile riconoscimento dei limiti umani. Nel vecchio lessico ricorrevano due sintagmi: «sine praeiudicio melioris sententiae» e «probabiliter loquendo»; se n´è perso l´uso, peccato. FRANCO CORDERO