Il Manifesto 16 gennaio 2008, Loris Campetti, 16 gennaio 2008
Il Pci disse a Lama: firma subito. Il Manifesto 16 gennaio 2008. «Cesare Romiti sbaglia: non dissi che se loro avevano portato in piazza 40 mila persone - un numero gonfiato, ma indubbiamente erano tanti - noi ne avremmo mobitati 200 mila
Il Pci disse a Lama: firma subito. Il Manifesto 16 gennaio 2008. «Cesare Romiti sbaglia: non dissi che se loro avevano portato in piazza 40 mila persone - un numero gonfiato, ma indubbiamente erano tanti - noi ne avremmo mobitati 200 mila. 500 mila avevo detto». I presunti 40 mila erano i capi, impiegati e operai portati in piazza dalla direzione della Fiat per gridare «Novelli, Novelli, riaprici i cancelli». Una manifestazione che pose fine alla lotta operaia forse più simbolica del dopoguerra, i 35 giorni dell’autunno ’80 alla Fiat, conclusa con una sconfitta storica per il movimento dei lavoratori. A correggere i numeri dell’allora amministratore delegato di Corso Marconi - così si chiamava il Lingotto, dal nome della strada torinese che ospitava gli uffici della direzione Fiat - è Pierre Carniti, segretario generale della Cisl al tempo della storia. Una storia dolorosa quella dei 35 giorni di lotta a Mirafiori, contro la decisione della Fiat di chiudere a modo suo una pagina di storia e una delle sue peggiori crisi industriali e di mercato, buttando fuori 24 mila lavoratori accusati di ogni reato: conflittualità, assenteismo, terrorismo. Una storia rimossa, un lutto mai definitivamente elaborato che di conseguenza riaffiora ciclicamente e coinvolge in prima persona i suoi protagonisti. La notizia che la contromanifestazione della Fiat stava crescendo - «il teatro Massimo è strapieno», «ora escono in corteo», «sono diecimila, no ventimila, no quarantamila» - cadde come una bomba al tavolo della trattativa tra l’azienda guidata da Cesare Romiti, lo sciafela leun (schiaffeggia leoni), nel ricordo dell’ex sindaco di Torino Diego Novelli) e i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, Lama, Carniti e Benvenuto. «Trovavo ridicola - riprende Carniti - quella gara militare su quante truppe ciascun contendente avrebbe potuto mettere in campo. Anche perché, sul terreno organizzativo il sindacato, per quanto acciaccato, aveva sicuramente un potere di mobilitazione molto più forte di chi aveva dovuto pagare la giornata lavorativa agli impiegati, per farli scendere in piazza. Il vero artefice di quella sfida ai sindacati e ai lavoratori, in realtà, non fu tanto Romiti quanto Carlo Callieri (soprannominato John Wayne, ndr). Certo Romiti, che Cuccia aveva voluto alla guida della Fiat non per capacità ma per fedeltà a Mediobanca, svolse una ruolo fondamentale. Nel tentativo di oscurare le ragioni della crisi, lui e la famiglia Agnelli si nascosero dietro il terrorismo e la ’disaffezione al lavoro’. Ebbe dalla sua gran parte dei media che presero per buona e rilanciarono quella lettura. Le vere ragioni della crisi erano altre, e chiamavano in causa la stessa gestione della Fiat di cui Romiti fu l’interprete più intollerante. L’azienda era in crisi perché i piazzali erano pieni di vetture invendute, non perché i lavoratori erano fannulloni o estremisti. Perciò dissi a Romiti che noi avremmo potuto portare in piazza 500 mila lavoratori, per dire che il problema non era quello ma la soluzione dei problemi reali che avevano precipitato la Fiat in una condizione di grave crisi: modelli sbagliati, pochi investimenti nella ricerca, nell’innovazione, nel prodotto. Insomma, una politica industriale insensata, incentrata sulla diversificazione che toglieva risorse all’auto per puntare alla finanziarizzazione e alla speculazione». Pierre Carniti dà una tesimonianza della trattativa con la Fiat decisamente diversa da quella assunta nel tempo come «vera». Ma si sa, «non esiste mai una verità assoluta». Dunque, Carniti torna alla cronaca: «Mentre crescevano i numeri della marcia dei capi, il telefono diventava sempre più rovente. Il povero Lama fu oggetto di molte telefonate da parte di dirigenti di peso del Pci. Antonio Tatò, Gerardo Chiaromonte, lo stesso Enrico Berlinguer insistevano nella richiesta al segretario della Cgil di firmare subito l’accordo. I comunisti avevano paura di restare travolti da quella vicenda, e anche le confederazioni sindacali erano molto preoccupate. Io dissi a Luciano Lama che quello che si profilava sotto la pressione della marcia dei 40 mila non sarebbe stato un accordo ma la presa d’atto di una sconfitta. Bisognava arrivare a un accordo, certo, ma non immediatamente, non quel giorno. Gli dissi che io non avrei firmato in quelle condizioni neanche sotto tortura. Poi arrivò l’ennesima telefonata da Botteghe Oscure, ’firmate subito’, e Lama mi disse: ’io firmo, tu che fai’? Fosse stato un accordo qualsiasi avrei risposto che no, io non avrei firmato. Anche perché quell’accordo non avrebbe risolto la crisi Fiat che aveva altre ragioni come ho detto, e come gli anni successivi avrebbero confermato. Ma si trattava di gestire una sconfitta, non potevo tirarmi indietro per senso di responsabilità e anche per la solidarietà e l’affetto che mi hanno sempre legato a Luciano Lama. Senza quelle pressioni del Pci non avremmo chiuso quel giorno e in quel modo». Come si chiuse è noto, Lama disse a Romiti «scriva lei il testo dell’accordo». E Romiti lo scrisse. E 24 mila operai furono messi fuori dalla fabbrica. Sbaglierebbe chi leggesse in questa ricostruzione di Carniti un atteggiamento radicale, a sostegno delle tesi degli operai «sconfitti» che avevano scelto la lotta a oltranza alla Fiat per opporsi a un progetto che ritenevano pericolosissimo per sé e per l’insieme del movimento operaio italiano. L’approccio di Carniti è diverso, è quello di un sindacalista coerente, autonomo dalle pressioni dei partiti, che fin dall’inizio della vertenza a Mirafiori non ne aveva condiviso la gestione. «Il Consiglione dei delegati aveva scelto una strada pericolosa, seguendo la logica ’si vince o si perde’. Sappiamo bene che una vertenza si chiude con un compromesso. Dovevamo fare un accordo e non la rivoluzione, come invece sul piano simbolico suggeriva quel logo scelto dai lavoratori che gestivano la lotta: il ritratto di Carl Marx. Così ci siamo messi in un cul de sac. Le confederazioni hanno le loro responsabilità, avremmo dovuto batterci per modificare la gestione di quella vertenza». Carniti ricorda un precedente: «Di Vittorio conosceva bene i rischi che si corrono scegliendo una gestione del conflitto ultraradicale, a oltranza, senza una strategia. In un momento difficile della lotta dei braccianti pugliesi, al tempo dell’occupazione delle terre, lui che non condivideva le forme scelte, andò a fare un comizio alla sua gente e iniziò così: ’Compagni, abbiamo sbagliato’. Non disse avete, disse abbiamo sbagliato. A Mirafiori avremmo dovuto seguire l’esempio di Di Vittorio». Due fattori, secondo Carniti, pesarono nel disastro Fiat: «l’improvvida sortita di Berlinguer davanti ai cancelli di Mirafiori», al fianco di chi sosteneva l’ipotesi di occupare la Fiat e la «reticenza di Cgil, Cisl e Uil sulle modalità del conflitto». Il film che uscirà venerdì nelle sale di Wilma Labate «Signorinaeffe», sullo sfondo delle vicende di quei giorni, ha contribuito a riaprire il dibattito sui 35 giorni alla Fiat. In un’intervista sul Corriere della sera Cesare Romiti ribadisce la sua lettura dei fatti e rivendica la linea dura. Questa testimonianza di Pierre Carniti offre una ricostruzione decisamente differente. Loris Campetti