Sergio Romano, Corriere della Sera 18/1/2008, 18 gennaio 2008
A proposito dei recenti scontri tribali avvenuti in Kenya, osservo che sono trascorsi ormai decenni da quando la decolonizzazione è finita
A proposito dei recenti scontri tribali avvenuti in Kenya, osservo che sono trascorsi ormai decenni da quando la decolonizzazione è finita. Ma è alla luce delle condizioni in cui si trovano oggi molte nazioni africane e asiatiche che mi permetto di porle un quesito scomodo: le popolazioni che dalle ceneri degli imperi coloniali europei, ma non solo, ottennero l’autodeterminazione, ne hanno davvero guadagnato? Quesito doppiamente scomodo visto che a mio avviso non è politicamente corretto sia affermare il contrario, sia negare l’evidenza dello stato delle cose! Ma è possibile trarre ugualmente un imparziale bilancio? Mario Taliani mtali@tin.it Caro Taliani, Quello che è accaduto in Kenya nelle scorse settimane può certamente rafforzare in molti osservatori europei la convinzione che in Africa «si stesse meglio quando si stava peggio». Anch’io penso che il processo al colonialismo, celebrato dalle opinioni pubbliche europee nel corso degli ultimi decenni, abbia finito per oscurarne i meriti e le motivazioni ideali. Anch’io penso che il «lamento dell’uomo bianco», come lo ha definito lo scrittore francese Pascal Bruckner, sia diventato col passare del tempo una trita giaculatoria, un confiteor recitato per ragioni strettamente europee piuttosto che per considerazioni veramente umanitarie. Ma prima di sostenere che gli africani sono incapaci di autogovernarsi e che dovrebbero affidarsi nuovamente a qualche potenza coloniale, converrà tener conto di almeno due considerazioni. In primo luogo molti Stati africani sono creazioni fittizie, «assemblate » negli uffici dei ministeri europei con pezzi di territorio conquistati, negoziati o barattati. Come ricordano Giampaolo Calchi Novati e Pierluigi Valsecchi in un libro apparso presso l’editore Carocci nel 2003 («Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche alle indipendenze nazionali »), soltanto sulle coste dell’Atlantico vi è traccia di antichi regni, comparabili per certi aspetti ai principati europei dell’Alto Medio Evo. In Africa orientale invece (con un’eccezione: l’Etiopia) esistevano soltanto tribù, spesso nomadi o accampate su territori che sono oggi suddivisi fra Stati diversi. Il caso del Kenya è particolarmente interessante. Le regione (un mosaico di tribù prive di tradizioni unitarie) venne progressivamente occupata dagli inglesi negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando la maggior preoccupazione di Londra era quella di estendere il potere della Corona dal Mediterraneo al Sud Africa. I confini furono tracciati e spesso corretti secondo le convenienze politiche del momento. Un esempio fra molti: quando l’Italia, dopo la Grande guerra, chiese una compensazione coloniale, la Gran Bretagna, per tacitarla, le dette un pezzo di Kenya chiamato Oltregiuba che divenne da quel momento parte della Somalia. In secondo luogo la concessione dell’indipendenza alle colonie africane non fu il risultato di un processo politico maturato col tempo e realizzato con la necessaria gradualità. Fu la decisione affrettata di governi che vollero sbarazzarsi rapidamente del «fardello dell’uomo bianco», ma sperarono di tenere al guinzaglio i nuovi Stati con trattati politici, economici e militari. Dimenticarono tuttavia che in quei territori, quando ne erano padrone, le vecchie potenze coloniali avevano fatto molto poco per creare il «cittadino», vale a dire il necessario «mattone» di qualsiasi architettura istituzionale. Come cento anni prima, il Kenya è ancora oggi una somma di popolazioni tribali (i kikuyu, i masai, i luo, i kalenjin), spesso divise da opposti interessi e dal ricordo di antiche rivalità. confortante, se mai, constatare che qualcosa di unitario si è progressivamente formato in quel Paese e che il suo futuro è forse meno buio di quanto non appaia in questi giorni.