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 2008  gennaio 18 Venerdì calendario

NEW YORK

Krisiauna Calaira Lewis aveva 2 anni. Il padre ventenne, tornato in Texas dopo aver perso un piede in un’esplosione a Falluja, la sbattè contro un muro, uccidendola. Il soldato Richard Davis, invece, è stato pugnalato ripetutamente dai compagni il giorno dopo il loro rientro dall’Iraq. Il suo cadavere fu dato a fuoco e nascosto in un bosco. Un’inchiesta del New York Times ha portato alla luce 121 casi di omicidi commessi negli Stati Uniti e attribuiti a reduci americani delle guerre in Iraq e in Afghanistan. In molti di questi casi, è stato lo stress post-traumatico insieme a problemi di alcolismo e familiari a portare i soldati «alla distruzione e all’autodistruzione», secondo il quotidiano. Tre quarti dei veterani erano ancora membri delle forze armate prima degli omicidi, che sono stati commessi per lo più con pistole; altri accoltellando le vittime, strangolandole o affogandole nella vasca da bagno. Delle vittime, 41 erano mogli, fidanzate, bambini; 32 erano altri reduci di guerra. Il resto erano conoscenti o estranei, come Noah P. Gamez, 21 anni che stava cercando di rubare una macchina in un motel di Tucson, in Arizona, quando un suo coetaneo, reduce dall’Iraq, lo ha sorpreso, gli ha sparato e poi si è suicidato. Tredici di questi soldati si sono uccisi, altri hanno tentato o minacciato di farlo. Il Times,
che ha scoperto i 121 casi attraverso ricerche sui giornali locali e documenti di polizia, tribunali e militari, afferma che vi sono probabilmente molti altri casi non riportati dai media. Il Pentagono, che non raccoglie dati su questi episodi, ha rifiutato di commentare l’inchiesta. Molti di questi reduci hanno appreso di avere disturbi da stress post-traumatico dopo l’arresto. Soltanto a due di loro erano stati diagnosticati problemi mentali dopo il ritorno dalla guerra. Alcune delle vittime hanno denunciato il governo, dicendo che le forze armate potevano e avevano «l’obbligo di compiere passi ragionevoli» per prevenire gli omicidi.