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 2008  gennaio 17 Giovedì calendario

Prima che Benedetto diventasse Bettino. Panorama 17 gennaio2008. Prima che Benedetto diventasse Bettino, già si sentiva Craxi, come sostenevano dì nascosto i suoi amici

Prima che Benedetto diventasse Bettino. Panorama 17 gennaio2008. Prima che Benedetto diventasse Bettino, già si sentiva Craxi, come sostenevano dì nascosto i suoi amici. La sera andava ad ascoltare i Gufi e il maestro Gino Negri, a vedere Piero Mazzarella al teatro Gerolamo, a cenare con Tino Scotti, l’omarino del «confetto Falqui, basta la parola! » che s’arrampicava al collo dell’omone di quasi 2 metri per baciarlo, tanto gli voleva bene. Oppure tirava tardi al derby canticchiando «il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan Drago» di Giorgio Gaber, «il più creativo cantore dei nost Milan » diceva. O andava al cinema a vedere film di guerra e western a patto che ci recitassero John Wayne e Gary Cooper, e citava come «un esempio di lotta per la libertà» Spartacus con Kirk Douglas. Prima che Benedetto diventasse Bettino, il suo futuro cognato Paolo Pillitteri, promettente critico cinematografico e regista, guardava Gunga Din con Cary Grant all’oratorio dei salesiani studiava la religione al liceo Berchet con don Luigi Giussani, «che in cattedra filmava il toscano. Non lo seguii in Comunione e liberazione perché le sue parole mi suonavano misteriose, colpa mia, vedevo le cose come nello specchio appannato citato da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi», e non sopportava Pier Paolo Pasolini, «Uccellacci e uccellini faceva proprio schifo, siamo onesti, una boiata pazzesca, me lo confessò persino Totò poco prima di morire, "che cosa ci troveranno mai da ridere in quel film?" scuoteva il capo». Adesso Pillitteri ha scritto Quando Benedetto divenne Bettino (Spirali, 336 pagine, 25 euro), un ritratto inedito del giovane Craxi, un atto d’amore per il leader socialista nell’ottavo anniversarìo della morte, che cade il 19 gennaio, ma anche per la Milano degli anni Sessanta. La vedova Anna e i figli Stefania e Bobo non ne sanno nulla, «sapranno da Panorama». Ci ha allegato anche il dvd di Miilano, oh cara, un documentario sull’immigrazione, soggetto e sceneggiatura di Craxi, regia dello stesso Pillitteri, girato nel 1963 e presentato quello stesso anno alla Mostra del cinema di Venezia. «Per lui era un’opportunità, non una tragedia, che i popoli si spostassero. "Siamo tutti terùn, emigrare è connaturato all’uomo, un segno di vitalità che renderà più forte coesa una nazione d’incerta identità, derivata dall’unione di stati e staterelli"» teorizzava. Non dimenticava che il padre Vittorio, l’unico della famiglia sopravvissuto al terremoto di Messina del 1908, era arrivato a Milano dalla Sicilia. Due infarti, cinque bypass e sette stent non sono bastati a spegnere, nel cuore del cognato cui i magistrati impedirono di volare in Tunisia per i funerali, il culto della memoria, «ecco, questi sono i santini della prima comunione e della cresima di Benedetto, li ho appena ritrovati, e quello che vede alla parete è il manifesto "Kennedy for president" che portò dall’America durante la campagna elettorale di Jfk: lo affidò a Pierre Restany perché ne ricavasse 100 litografie, poi se le numerò e se le firmò». L’accrocco artistico doveva essere una specialità di Craxi: nel suo ufficio di condirettore dell’Opinione, Pillitteri conserva persino una scultura di Marc’Aurelio alla quale il presidente del Consiglio segò via la testa per farci saldare sopra il volto barbuto dell’amato Giuseppe Garibaldi, Quando Benedetto divenne Bettino? Nel 1960, quando si presentò alle elezioni per la prima volta. Nella campagna elettorale per il Comune di Milano usò un gettone rosso di plastica che recava il numero di lista e il nominativo «Benedetto Craxi detto Bettino». Lei come lo conobbe? Ci trovammo in tre a far la coda per l’iscrizione all’università: io, Ugo Intini e Rosilde Craxi, che i genitori avrebbero voluto chiamare Ildegonda: sarebbe stato un ostacolo quasi insormontabile al nostro matrimonio. Il fratello Bettino lo conobbi poco dopo. Era assessore all’Economato. Da presidente del Circolo universitario cinematografico andai a Palazzo Marino per chiedergli un contributo. Glielo diede? No. Mi spedi dal vicesindaco dc, il leggendario Luigi Meda, assessore al Bilancio. Lo trovai curvo sulla scrivania monumentale a far conti. « Se gh’è? Se te vöret?». Avanzai la richiesta. «Eh, qui tutti bussano a danée. Quanto vi occorre?». Ipotizzai una cifra. E Meda: «Bisogna sempre domandare il doppio di ciò che serve». Moltiplicai la somma per due. «Cosi va meglio. Ma danée non ce ne sono. Te prumeti che quai cos troverem fra le pieghe del bilancio. La metà di quello che vi serve ... » . Di Craxi che cosa la colpì? L’indulgenza per Benito Mussolini. Un giorno, transitando con lui da piazzale Loreto, mi sentii in dovere di decantare le memorie resistenziali del luogo. «Brutta píazza, bruttissima» mi gelò. «Anche urbanisticamente: palazzi moderni senza nemmeno il gusto dell’altezza. La piazza della vergogna perenne, incancellabile, per l’ignobile spettacolo. Dicono che fosse una catarsi collettiva. Ma va’! Che c’entrano la catarsi, la resistenza e la lotta partigiana con le tricoteuse che ballano sui cadaveri sfregiati di Mussofini e di Claretta Petacci? Un’infamia!». Ero sotto shock, «Il crapùn, se proprio vuoi saperlo, è stato l’ultimo vero, grande urbanista di questo Paese». Ammaliato dall’estetica fascista. Mi raccontava che il Duce s’era fatto portare sulla scrivania di Palazzo Venezia la carta toponomastica e davanti ai collaboratori aveva tracciato un cerchio intorno a Milano, cancellando i piccoli comuni: Gorla, Precotto, Crescenzago, Lambrate. «La grande Milano l’ha incominciata, e per ora finita, solo lui. Era un genio. I milanesi manco sanno che i confini della loro città un tempo arrivavano fino a Bellinzona, in Svizzera. Se non ci fosse stato Mussolini, Milano terminerebbe alla fine di corso Buenos Aires, altro che metropoli! T’ee capì?». Ricordo bene il gesto della mano, un immaginario compasso decisionista. Eppure il dodicenne Benedetto, sfollato a Casasco d’intelvi. aveva insultato i balilla, preso a sassate la casa dei fascio e infranto un ritratto del Duce. Diventato Bettino credo che considerasse Mussolini diverso dal fascismo, un uomo di sinistra, non di destra. Il dittatore aveva pur sempre salvato l’amico Pietro Nenni. Nel 1965 Bettino mi ordinò di ricavare un disco 33 giri da un comizio che Nenni aveva tenuto alla Scala. Venne in sala d’incisione mentre pulivamo la registrazione. «Stile inconfondibile, un tenore della politica» buttai lì. E Craxi: « lo stesso stile dell’altro tenore, il suo compagno Benito. Identico. Non senti la cadenza romagnola, l’incedere tribunizio, la capacità di fare la pausa per l’applauso e per la rincorsa successiva? Impressionante. Bisognerebbe trarne un film, una pièce teatrale, qualcosa tipo Vite parallele». Il parallelo con il Duce è stato fatto anche per Craxi. Ma non regge. Bettino era autorevolmente autoritario. Certe sue pose risultavano più di facciata che di contenuto. Era estremamente riservato. Non l’ho mai sentito parlare di donne o usare espressioni goliardiche. Scordava le cose, era bisognoso d’aiuto, praticamente non sapeva allacciarsi le scarpe. Quando lo intervistai a Hammamet, un anno prima che morisse. mi pregò di non scrivere che il giorno precedente era caduto per terra e io avevo trovato la moglie Anna intenta a spalmargli il Lasonil sul ginocchio gonfio. Era spicciativo, ruvido, ma timido. Spesso voleva avere ragione a tutti i costi, certo. Però sapeva ascoltare, Ho ancora in mente un’interminabile telefonata che da segretario provinciale del Psi fece nel 1968 a Renata Bottarelli, tostissima cronista politica dell’Unità, faziosa rompiscatole, per convincerla che l’occupazione di un albergo in disarmo da parte degli studenti organizzati di Mario Capanna era un arbitrio. Si scaldava, interrompeva, spiegava, assentiva, dissentiva. Io la giudicavo una perdita di tempo, lui no. Da dove nasceva il suo acceso anticomunismo? Come consigliere nazionale dell’Unuri, il parlamentino degli studenti universitari, aveva visitato i paesi del socialismo reale: Cina, Urss, Mongolia, Cecoslovacchia. Capì che non era comunismo, ma solo un regime cattivo, repressivo, fondato sulla miseria. «Noi vogliamo il benessere, non le strade buie e la gente triste» ci diceva a ogni ritorno. «Non dovete avere il complesso dinferiorità. La sinistra non è dove c’è il Pci. I comunisti non stanno a sinistra: stanno a Est». Eresie, pronunciate a quel tempo. Però aveva un debole per gli ex comunisti. Rammento come guardava Giuliano Ferrara. Come? Con lo sguardo di suo padre, Maurizio Ferrara, del quale ero molto amico. Sarà la mia deformazione di regista, ma scorgevo negli occhi di Bettino, mentre osservava Giuliano, lo stesso sguardo speciale, un misto di dolcezza e di orgoglio. Era un talent scout, capiva al volo chi valeva e chi no. Lei sostiene che voi, suoi discepoli, vi sentivate una squadra. Lo eravamo. una definizione che regge a distanza dì anni, nonostante ci abbiano definito clan ristretto, fedelissimi, setta, falange tebana, falange macedone. Vi hanno dato anche della banda. Francesco De Gregori cantava Craxi così: « solo il capobanda ma sembra un faraone. ha gli occhi dello schiavo e lo sguardo dei padrone, si atteggia a Mitterrand ma è peggio di Nerone». Cattiverie gratuite. Ancor oggi, dopo la catastrofe, mi sento orfano della squadra, non solo del partito, che era il contenitore. Mi manca come l’aria quella capacità di ragionare collettivamente. All’inizio davo la colpa ai miei disturbi cardiaci. Invece era la mancanza della squadra a soffocarmi. Chi resta della squadra? Senza capitano, la squadra non esiste. Restano le mie agende. Sto rileggendo le cose che mi diceva al telefono dalla Tunisia, prendevo appunti per non dimenticarle. Cose terribili. Come quando nell’autunno 1997 la commissione Stragi cancellò all’ultimo momento il viaggio a Hammamet per l’audizione di Bettino sul rapimento di Aldo Moro. Era disperato. Che cos’era accaduto? Mi disse che il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, aveva chiamato la presidenza della repubblica tunisina affinché invitasse Craxi a darsi una calmata. So che esiste anche un suo appunto scritto su questo: lo sto cercando. Del resto lo stesso presidente della commissione, il ds Giovanni Pellegrino, commentò: «Non si vuole che Craxi parli». La squadra che compiti aveva? «Oggi a Milano, domani in Italia»: Bettino aveva trasformato uno slogan di Carlo Rosselli in disegno politico. Infatti il centrosinistra comincia nel 1960 a Milano e 3 anni dopo arriva a Roma. L’intesa fra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni potrebbe diventare un nuovo centrosinistra? Si, senza dubbio. Lo auspico per il bene dell’Italia. La mucillagine è arrivata a una tale altezza che ci anneghiamo dentro. Si mettano d’accordo e ci tirino fuori dalla mucillagine. Almeno questo si può pretendere? Il centrosinistra segnò una grande svolta anche nel costume. Nel 1960, alla prima milanese, La dolce vita, ebbe fischi atroci, accompagnati da sputi al povero Federico Fellini seduto in platea. L’anno prima i socialisti s’erano battuti contro il presidente della Provincia, Adrio Casati, democristiano, che aveva vietato a Luchino Visconti di girare all’Idroscalo la sequenza di Rocco e i suoi fratelli in cui Simone, Renato Salvatori, uccide la mondana Nadia, Annie Girardot. Non si doveva mostrare che le prostitute battevano da quelle parti. La sera dell’anteprima al Capitol, dove adesso c’è l’Emporio Armani, il procuratore della Repubblica, Carmelo Spagnuolo, ordinò al proiezionista di abbassare il mascherino per oscurare le scene del film giudicate alla stregua di atti osceni in luogo pubblico. Diciamocelo, quel palazzo di giustizia dallo stile vagamente iracheno ha sempre seguito e talvolta anticipato, se non addirittura imposto, lo Zeitgeist, lo spirito del tempo: politico. Con l’aiuto dei poteri forti cittadini: le solite famiglie, Crespi, Falck, Pirelli, Bonomi-Bolchini, Valerio-Edison, Rizzoli, Moratti, e il solito Corriere della sera. Succede ancor oggi? I poteri forti sono in grande spolvero. Via la politica, tornano le famiglie, no? Cambiano solo i nomi: Ligresti al posto di Valerio-Edison. I Moratti ci sono sempre, anzi più di prima. Mancano i Crespi e i Falck, è vero, ma vada a leggersi da chi è composto il patto di sindacato del Corrierone. Perché la Milano che conta avrebbe dovuto avercela coi Psi? Me lo svelò don Ernesto Pisoni, il direttore dell’Italia, poi trasformato in Avvenire: «Il mondo imprenditoriale è timoroso di pagare il dazio». Parole testuali. Quelli temono sempre e solo per i loro danée. Non volevano lasciarci in mano l’arma della tassa famiglia, che consentiva di mandare i vigili urbani a casa di un ricco e rivedergli l’imponibile fiscale in base al tenore di vita. Ma com’é che lei, socialista, stava sempre in mezzo ai preti? La vocazione per il cinema me la instillò don Franco Ceriotti, che poi fece carriera nella Conferenza episcopale italiana. Anche Bettino aveva un innato rispetto per il Papa, Mi chiedeva notizie di don Ferruccio Ferrari, suo cugino, che aveva celebrato le mie nozze con Rosilde. «Una famiglia che si rispetti deve avere un sacerdote fra i suoi» sentenziava. Ci andò vicino. Aveva studiato nel collegio arcivescovile De Amicis di Cantù e girato i seminari della Lombardia. Alla fine stava per farsi prete. A me raccontò: «A 10 anni, chierichetto nella chiesa di piazza Bernini, in un dipinto vedevo Gesù deposto dalla croce che apriva le palpebre e mi guardava». Non gli ho mai sentito pronunciare bestemmie, imprecazioni, parolacce. In questo era completamente diverso dal socialisti mangiapretì, atei, in sospetto di loggia, astiosi col Vaticano. «Noi siamo laici, non anticlericali » argomentava. «L’anticlericalismo è un atteggiamento ideologico. Non si fanno guerre ideologiche alla Chiesa». Nel 1968 la squadra fu determinante per l’elezione a deputato di Eugenio Scalfari nel Psi. Non la squadra: lo, mia moglie e mio figlio Stefano, che aveva appena 1 anno e oggi me lo rimprovera. Il comitato elettorale era a casa nostra, in via Carnia 29. Rosilde piegava dépliant, imbustava lettere e ogni tanto scuoteva la carrozzina per calmare il pupo che strillava. Scalfari era stato condannato per l’inchiesta dell’Espresso sul presunto colpo di stato tentato dal generale Giovanni De Lorenzo. «Giacomo Mancini mi ha chiesto di farlo eleggere: dobbiamo salvarlo dalla galera con l’immunità parlamentare» ordinò Bettino. Obiettivo raggiunto. Per Scalfari confezionai persino un finto Espresso propagandistico. Al comizio di chiusura in piazza Duomo, Bettino ne consegnò una copia a Nenni. L’anziano leader sollevò gli occhiali sulla fronte e diede una scorsa ai titoli in prima pagina. Poi mi restituì la pubblicazione mormorando: «Quella fu l’estate del golpe? Mah. Mi pare una parola grossa, mi pare». Perché tra i figli di Craxi, Stefania e Bobo, non c’è accordo? Perché, fin da piccoli, hanno sempre litigato. Va’a capirli. Chi assomiglia di più al padre? Dovrebbero fondersi in una sola persona, allora si. Invece hanno i pregi dei suoi difetti e i i i difetti dei suoi pregi. La verità è che lui resterà irripetibile. Io ringrazio Dio d’avermelo fatto conoscere. Stefano Lorenzetto