Il Sole-24 ore 13 gennaio 2008, Andrea Giardina, 13 gennaio 2008
La monnezza di Augusto. Il Sole-24 ore 13 gennaio 2008. Non sarebbe una cattiva idea se prima o poi uno studioso serio scrivesse una storia universale della spazzatura (la trash history non è certo una novità ma è tutt’altra cosa)
La monnezza di Augusto. Il Sole-24 ore 13 gennaio 2008. Non sarebbe una cattiva idea se prima o poi uno studioso serio scrivesse una storia universale della spazzatura (la trash history non è certo una novità ma è tutt’altra cosa). Una storia vista dalla parte dei topi, dei veleni, dei cattivi odori, delle discariche e dei malumori della povera gente. La spazzatura dei nostri antenati è una miniera d’informazioni per gli archeologi e per gli storici: dalle anfore che gli antichi gettavano nelle discariche si ricavano dati fondamentali sulla circolazione delle merci da un capo all’altro del Mediterraneo, dagli avanzi dei pasti dei minatori del Colorado apprendiamo notizie preziose sulla loro dieta, mentre un consunto esemplare di jeans di prima generazione vale sul mercato antiquario quanto un vaso etrusco. Per non parlare dei paletnologi, che senza la spazzatura avrebbero davvero ben poco da fare. Ma tutto questo riguarda l’analisi e l’interpretazione dei reperti, non la storia del loro smaltimento. Questa storia comincia ad apparire come un serio problema sociale con le grandi città del mondo antico, in primo luogo Roma, la più grande di tutte, la megalopoli per eccellenza. Secondo i calcoli degli specialisti, nell’età di Augusto la capitale dell’impero contava circa un milione di abitanti. Oggi questa cifra non fa molta impressione, ma all’epoca suscitava stupore: se consideriamo che la popolazione totale dell’impero non superava i 60 milioni e che la media delle città non eccedeva i diecimila abitanti, Roma doveva mostrarsi ai contemporanei come oggi ci appaiono i giganteschi agglomerati di Città del Messico, di Pechino o di Tokio. Il milione di abitanti della Roma imperiale fu uguagliato soltanto da Londra, agli inizi dell’Ottocento. Da questo punto di vista, l’Urbs potrebbe essere considerata una città «moderna», ma un simile giudizio ci porterebbe sicuramente fuori strada: Roma non aveva lo stesso livello tecnologico della Londra ottocentesca e la sua economia era molto meno sviluppata. Per mantenere e far funzionare una città di un milione di abitanti ai tempi di Augusto o di Traiano erano dunque necessarie risorse finanziarie e umane molto superiori a quelle occorrenti a una città delle stesse dimensioni nell’Europa dell’era industriale. Roma è come la neve, disse il retore greco Elio Aristide nel II secolo d.C., come la neve che tutto copre a vista d’occhio. Per puro caso, questa metafora richiama i moderni plastici di gesso dell’Urbe, candidi e immacolati, ai quali si è aggiunto, più di recente, il nitore plastificato delle ricostruzioni virtuali. Il tutto sembra corrispondere perfettamente all’immagine dei monumenti romani creata dal fascismo nella zona dei Fori: una città ariosa, dalle ampie scenografie, che non è difficile immaginare foderata di niveo travertino. Quei monumenti che Mussolini volle far «giganteggiare nella necessaria solitudine» sembrano oggi non aver mai avuto nessun rapporto con l’umanità dei loro tempi e con le sue miserie. Ma è un’impressione falsa. Chi legge gli scrittori antichi, vede infatti apparire una Roma animata e chiassosa, una città colorata e brulicante che può ricordare, per alcuni aspetti, la vivacità dei suk arabi. Nei vicoli si avanzava spingendo gli altri corpi, procedendo come in uno slalom, evitando d’inciampare nei cesti delle merci esposte fuori delle botteghe, scansando i carretti e le lettighe. E naturalmente cercando di non finire dentro un cumulo di spazzatura. Gli spazi della religione e della politica erano tenuti con cura e sorvegliati, ma l’habitat della plebe era difficile da governare. L’igiene della città era complicata come la sua composizione sociale e quindi come i suoi odori. I grandi pittori vittoriani come Alma Tadema (celebrato in questi giorni in una splendida mostra napoletana) amavano rappresentare le dame romane intente a comprare fiori da deliziose bancarelle e i loro mariti come frequentatori di botteghe d’arte dove invano cercheremmo una macchia di sporco, una traccia di fuliggine, un detrito. Per avvicinarci alla realtà dovremmo introdurre in quel mondo l’aroma forte dei cibi cotti nelle osterie e sulle bancarelle, gli effluvi acri delle salse, i lastricati impregnati di urina e di vino inacidito, senza dimenticare i miasmi delle latrine a cielo aperto e delle carcasse degli animali randagi. E se gli odori fossero rumori, quelli provenienti da una delle tante concerie sparse nella città sarebbero davvero un urlo immane. Le leggi esistevano ma era difficile farle applicare. Una tra le più antiche pretendeva che nessun cadavere contaminasse l’area circoscritta dal pomerio, il perimetro sacro della città. E per questo i cimiteri sorgevano tutti al l’esterno dell’Urbs. Ma non era raro che uno straniero di passaggio o un barbone morissero per strada, e che nessuno si occupasse della rimozione. Di qui il proliferare di aneddoti forse non autentici ma sicuramente credibili: il cavallo di Nerone in fuga s’imbizzarrì per il fetore di una salma abbandonata, un cane randagio depose ai piedi dell’imperatore Vespasiano una mano strappata a un cadavere insepolto... Se, come accadeva nei romanzi e nei film che andavano di moda fino a qualche tempo fa, fossimo proiettati per incanto nell’antica Roma, la troveremmo alquanto sporca. Certamente molti rifiuti erano riciclati direttamente dai privati, e le città pre-industriali erano tutte, in una certa misura, «autopulenti». Esisteva un primordiale servizio di nettezza urbana, che adoperava i cosiddetti plostra stercoraria, «carri dei rifiuti» che erano svuotati nelle discariche prossime alla città (sembra che nessuno protestasse), ma gli addetti erano solo poche centinaia, mentre è dubbio se una parte del servizio fosse appaltata. Per quanto vasto e potente, l’impero romano aveva un’amministrazione «leggera» e non poteva contare su quelle masse di addetti, impiegati e burocrati che sono tipici degli Stati moderni. Molto era affidato alla buona volontà dei cittadini, e come sanno bene quei romani che ai giorni nostri setacciano illegalmente il greto del Tevere, i loro antenati usavano il loro biondo e sacro fiume come una discarica a cielo aperto. Ma per non nuocere troppo a quell’immagine decorosa e solenne dell’antica Roma che in fondo ci è cara, dobbiamo tener presente che nella Roma rinascimentale e barocca la situazione era forse ancora peggiore. Andrea Giardina