il venerdì di repubblica 11 gennaio 2008, Natalia Aspesi, 11 gennaio 2008
L’odio e la pena per mia madre. Il venerdì di Repubblica 11 gennaio 2008. HO 57 anni, sono appena andata in pensione, ho fatto per anni la maestra, la moglie, la madre di una bimba in difficoltà adottata all’età di sette anni
L’odio e la pena per mia madre. Il venerdì di Repubblica 11 gennaio 2008. HO 57 anni, sono appena andata in pensione, ho fatto per anni la maestra, la moglie, la madre di una bimba in difficoltà adottata all’età di sette anni. Una vita senza un attimo di sosta. Ora mia figlia è andata a vivere in un’altra città, mio marito, con cui ho un buon rapporto, lavora part-time e si dedica ad attività di tempo libero e volontariato. Io sarei finalmente libera di viaggiare, studiare inglese, scivolare sulla neve e altro. Ma una catena mi imprigiona sempre di più: mia madre. Ha 80 anni, è vedova, sufficientemente autonoma. Da questa donna sono scappata a 20 anni andando a vivere per conto mio. Il nostro rapporto è stato superficiale e distante, non abbiamo mai comunicato. Poi è morto mio fratello e dopo mio padre. Da allora lei si è appoggiata a me sino a togliermi il fiato. L’ho portata da vari medici, compreso lo psichiatra, per la sua depressione, senza risultato. Il rapporto tra noi non è migliorato, i suoi modi sono sprezzanti e lamentosi, la sua rabbia contro il mondo non ha mai fine. Io non la prenderei mai a vivere con noi, e del resto non ho posto in casa, ma le sono vicina dandole tempo e disponibilità e sacrificando viaggi, amicízie, attività. Ma non basta mai, lei non è mai contenta e io sono al limite. Non la sopporto più, ogni ora passata con lei è una tortura, ma provo anche una pena enorme per la sua sofferenza, per le sue provocazioni e per la vita da scontenta che conduce. Mi sento lacerata, non riesco a vivere, men che meno a partire, anche per periodi brevi o almeno per due soli giorni. Vivo ormai una situazione veramente difficile da reggere. E della quale non si intravede la fine, o almeno un qualche anche parziale miglioramento. Mio marito mi incita a prendermi più spazi, a dedicare a me stessa almeno un poco più di tempo, ma io non mi sento di lasciare sola mia madre, sofferente come è. La libertà per me è rimasta un sogno che non potrò mai realizzare. Giulia Torino UNA GRANDE sofferenza non sopportare le persone che si dovrebbero amare e nello stesso tempo essere pieni di rimorso per il rifiuto che proviamo per loro. Non saper venire a patti con noi e con loro, sacrificarsi senza generosità, provando risentimento per la persona cui regaliamo il nostro tempo, un tempo che ci pare rubato ingiustamente. Ci detestiamo per non saper essere più crudeli, le detestiamo perché non ci lasciano liberi. Ci aspetteremmo riconoscenza, ma è proprio questa assenza, anzi questo livore, che ci lega ancora di più. Sarebbe semplice per me indicarle con la stessa indifferenza due strade opposte: pensi a se stessa provvedendo che sua madre, del resto autonoma, sia assistita. Pensi a sua madre e accetti questa prova che, mi perdoni il pessimo gusto, prima o poi finirà. Ma non ci sono, credo, vie d’uscita, perché alla fine il senso del dovere, e la pietà, creano rimorsi insuperabili. molto triste non aver mai amato una madre che non ha saputo amare, ma adesso il suo cuore si stringe per questa donna che invecchia nella massima amarezza, che odia il mondo, che non sa provare amore, che percepisce probabilmente la sua esasperazione ma non le consente di respirare. Forse se avesse la forza di prendersi davvero degli spazi, come le suggerisce suo marito, saprebbe poi assistere sua madre con meno amarezza. Natalia Aspesi