Il Manifesto 13 gennaio 2008, Sara Marinelli, 13 gennaio 2008
Ecce omo: Alfredo, dieci anni fa. Il Manifesto 13 gennaio 2008. Il 13 gennaio 1998, Alfredo Ormando, un aspirante scrittore siciliano di trentanove anni, dopo un lungo viaggio in autobus dalla Sicilia, giunse a Roma in piazza San Pietro alle prime luci dell’alba
Ecce omo: Alfredo, dieci anni fa. Il Manifesto 13 gennaio 2008. Il 13 gennaio 1998, Alfredo Ormando, un aspirante scrittore siciliano di trentanove anni, dopo un lungo viaggio in autobus dalla Sicilia, giunse a Roma in piazza San Pietro alle prime luci dell’alba. Si portò nell’immensa piazza semideserta del Vaticano e, con lo sguardo rivolto alla Basilica, si inginocchiò come per pregare. Fece un rapido gesto con la mano e improvvisamente fu avvolto in una vampa di fuoco. Davanti alla Chiesa e, come sperava, davanti al mondo, Alfredo Ormando si era dato in pasto alle fiamme: «Spero che capiranno il messaggio che voglio lasciare: è una forma di protesta contro la Chiesa che demonizza l’omosessualità, demonizzando al contempo la natura, perché l’omosessualità è sua figlia». Sin dalla sua adolescenza a San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, e sino alla fine dei suoi giorni, Alfredo Ormando aveva incontrato il suo male di vivere nell’angustia della provincia siciliana, nella grettezza dell’ambiente familiare di estrazione contadina, nell’angoscia suscitata dalla realizzazione della sua omosessualità posta in conflitto con la sua già tormentata fede cattolica, impregnata di senso del peccato e di penitenza. Animato dal desiderio di distinguersi e di emergere dal suo retroterra culturale e sociale, Ormando aveva ripreso da adulto gli studi interrotti da ragazzo sino al conseguimento della laurea conferitagli post-mortem alla memoria, e aveva fatto della sua passione per la scrittura l’unico spazio in cui poter «svelare» la sua omosessualità. Dall’ingente quantità dei suoi scritti mai pubblicati e rifiutati dagli editori, ad eccezione di un romanzo stampato a sue spese, intitolato «Il Fratacchione» - un resoconto autobiografico della sua permanenza di due anni in un convento cappuccino - affiora il ritratto di un uomo che si considerava «fallito due volte, come uomo e come scrittore», emarginato dal pregiudizio sociale ed esasperato dall’inabilità a sanare il suo dissidio spirituale. Le dozzine di lettere destinate a un amico di Reggio Emilia, scritte nei mesi precedenti al suicidio, e spedite appena prima di prendere il pullman che l’avrebbe portato a San Pietro, sono una sconsolata ricostruzione del suo lucido e calcolato progetto di immolazione: «Sono impaziente di mettermi in viaggio per farla finita a piazza San Pietro. Ho tutto pronto ... Il dolore di sentirmi bruciare vivo non mi spaventa più ... Paragonato al mio vivere è di gran lunga preferibile, perlomeno durerà pochi minuti». Alfredo non morì sul colpo come avrebbe voluto, ma dopo dieci lunghi giorni di atroce agonia all’ospedale Sant’Eugenio di Roma. Furono quelli i giorni di unica risonanza del suo atto nel mondo mediatico, ben presto soffocata dal velo di silenzio gelido calato dal Vaticano, ansioso di sottrarsi all’accecante bagliore che quella fiammata gli aveva riversato addosso. Furono quelli anche i giorni di sommovimento e fibrillazione nel popolo lgbt italiano e internazionale affinché quel potente gesto non fosse vanificato e misconosciuto dalle reazioni difensive della Chiesa che si limitò a puntare il dito contro l’incomprensione della famiglia e del paese natio, o non venisse risucchiato nella coltre di omertà e vergogna dei familiari con la quale Alfredo aveva convissuto tutta una vita in terra siciliana. Sparita la grande macchia nera di fuliggine depositata sul lastricato della piazza - ripulita in fretta e furia dagli inservienti vaticani - è stato grazie alla tenacia dell’attivismo gay in Italia, e anche internazionale, che il fuoco acceso da Alfredo è riuscito a lasciare tuttora un tizzone rovente dal quale far sprigionare nuove energie per combattere l’omofobia di matrice religiosa e per tradurre il conflitto tra fede e omosessualità in occasione di dialogo. A dieci anni esatti di distanza è doveroso non soltanto ricordare e commemorare, ma indagare sul significato di quel gesto e di quella esistenza che ha destato opinioni ed emozioni diverse, sospese fra solidarietà e indifferenza, condanna e glorificazione. Soprattutto, è necessario non interpretare l’intera vicenda esclusivamente come un puro «attacco alla religione», ma come fonte di riflessione sulla natura e sulle forme dell’espressione spirituale, sulla sua salvaguardia in quanto parte organica dell’aspirazione umana, al di là dei dogmi e delle confessioni, e dei conflitti fra le istituzioni. Martire sospetto, Alfredo Ormando ha congiunto, con la miccia di un fiammifero, una storia di persecuzione e autoannientamento alla speranza di comunione e appartenenza. L’incendio che lo ha consumato è anche quello che lo ha illuminato, permettendogli di rischiarare la sua oscurità ed essere «visto» in una società che preferirebbe non vedere. Era una fiamma - Alfredo credeva - che l’avrebbe avvinto a un Dio nella cui immagine egli non avrebbe mai potuto riflettersi mentre era in vita. Rappresentando al contempo l’accensione e l’estinzione di una forza vitale, il fuoco è una simbologia appropriata per esplorare il rapporto tra fede e omosessualità. Esso sostanzia simultaneamente il fervore religioso, l’ardore della passione d’amore per Dio o per un individuo, la purificazione, l’espressione di rabbia e di liberazione dei sentimenti e degli ideali soffocati da gay e lesbiche nei vari angoli del pianeta. Rievocando il rogo dei sodomiti fatti divampare dall’Inquisizione, il fuoco di Alfredo è stato sia una forma di memoria sia di protesta: «Che non accada mai più». per questo che l’incendio che Alfredo Ormando ha appiccato il 13 gennaio 1998 è divenuto emblematico nella lotta di accettazione e affermazione del popolo lgbt all’interno delle istituzioni religiose e sociali, ma anche dell’istinto umano e vitale a esserci, a essere visti e accettati a dispetto delle differenze personali. Quella grande lanterna umana ha offerto un lampo di speranza e di compassione: una scintilla alla luce della quale ricordare, testimoniare, ed emergere dal buio. Sceneggiatrice del documentario in progress «Alfredo’s Fire» di Andy Abrahams Wilson Sara Marinelli