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 2008  gennaio 14 Lunedì calendario

La febbre dell’oro. La Repubblica 14 gennaio 2008. Il noto trader americano Peter Palmedo, che ha fatto fortuna con un fondo d´investimento nei metalli preziosi, tiene incorniciata nel suo ufficio a mo´ di scaramanzia una prima pagina del Financial Times datata dicembre 1997

La febbre dell’oro. La Repubblica 14 gennaio 2008. Il noto trader americano Peter Palmedo, che ha fatto fortuna con un fondo d´investimento nei metalli preziosi, tiene incorniciata nel suo ufficio a mo´ di scaramanzia una prima pagina del Financial Times datata dicembre 1997. Il titolo era "The death of gold": la morte dell´oro. Se esistesse un museo delle profezie economiche sbagliate chissà quanto pagherebbe per acquistare quel reperto. La settimana scorsa l´oro ha toccato per la prima volta nella storia il prezzo record di 900 dollari l´oncia, dopo un 2007 in cui era già salito vertiginosamente, oltre il 30%. Nell´ultimo sondaggio compiuto dalla London Bullion Market Association, una Borsa mondiale dell´oro, 14 sulle 24 banche specializzate nella speculazione sui metalli preziosi sono convinte che nel 2008 si raggiungeranno i 1.000 dollari l´oncia. Fino al 1971, quando ancora il sistema monetario internazionale era fondato sul "gold-exchange standard" e cioè sulla finzione che le riserve aurifere di Fort Knox garantissero il valore del dollaro, l´oro era quotato 35 dollari. Da allora, svincolato dal suo ruolo nei pagamenti tra Stati (ma ancora ben presente nei forzieri delle banche centrali) il metallo giallo ha avuto alti e bassi come le montagne russe. E´ un termometro sensibilissimo della congiuntura geopolitica mondiale: le tensioni militari o i pericoli inflazionistici hanno riacceso la febbre del lingotto fra gli investitori in cerca di un bene-rifugio. Nel 1980 toccò 850 dollari l´oncia, un prezzo tuttora insuperato in termini reali cioè al netto dell´inflazione: era l´anno della rivoluzione khomeinista in Iran e l´Urss aveva invaso l´Afghanistan. Oggi le forze che spingono verso l´alto la sua quotazione sono soprattutto economiche: l´incombere di una recessione in America, la crisi di sfiducia verso il sistema bancario, l´inflazione delle derrate agricole e delle materie prime…senza dimenticare le doti delle giovani spose indiane e la folla di speculatori che si accalca alla Borsa di Shanghai. L´economista Larry Summers, già ministro del Tesoro di Clinton e rettore di Harvard, dopo aver studiato le fluttuazioni dell´oro dal 1730 ai nostri giorni ha coniato una "legge Summers" che suona più o meno così: la voglia di metallo giallo è inversamente proporzionale ai rendimenti che si possono ottenere dagli investimenti industriali e finanziari. In parole semplici, più l´economia reale va a picco e le Borse sono in preda al pessimismo, più il lingotto torna di moda. L´oro è stato spesso un protagonista nelle svolte storiche dell´economia mondiale. Grazie ai conquistadores la Spagna è invasa del metallo prezioso soprattutto a partire dal 1503; i galeoni che traversano l´Atlantico diventano ancora più carichi dal 1553 grazie al saccheggio di Atahualpa e di Cuzco; nel XVII subentrano anche le ricche miniere del Brasile. Come spesso accade la febbre dell´oro coincide con disastri nell´economia reale. Dal 1500 al 1650 la Spagna viene stremata dall´inflazione, chi dispone di redditi fissi vede il suo potere d´acquisto ridotto del 25%. La maledizione aurifera è una delle ragioni per cui l´impero spagnolo s´impoverisce e resta ai margini della Rivoluzione industriale che avrà il suo epicentro in Inghilterra. Nella stessa epoca l´inflazione viene misurata accuratamente anche nella vicina Francia: per comprare una mucca un agricoltore deve accantonare il frutto di 12 giorni di lavoro sotto Carlo VIII, ma ben 43 giorni sotto Francesco I. L´inflazione aurifera coincide con un altro fenomeno che torna ad esserci familiare: la pressione dello sviluppo economico sulle risorse naturali. Tra il XV e il XVI secolo l´Europa è tormentata dal carovita perché i terreni coltivabili non bastano a soddisfare il boom demografico. Tre secoli dopo l´oro torna protagonista con il "gold standard": il sistema che regola le parità fra le monete in base alle riserve aurifere degli Stati coincide con l´apogeo dell´impero britannico. Con l´avvento dell´egemonia americana e gli accordi di Bretton Woods nel 1944 si passa al "gold exchange": con la parziale eccezione del blocco sovietico, di fatto tutte le nazioni del mondo accettano il dollaro come strumento del commercio mondiale e degli investimenti. La fiducia nel dollaro però è sostenuta da una promessa: Washington assicura che può scambiare in ogni momento i suoi biglietti verdi con una quantità fissa di metallo giallo. Via via che aumenta la massa dei dollari in circolazione, anche per effetto della guerra del Vietnam e dei deficit americani, quella finzione diventa insostenibile. Più volte la Francia gollista minaccia Washington di vedere il bluff, chiedendo una massiccia conversione di dollari in lingotti. Alla fine Richard Nixon getta la spugna, nel 1971 dichiara la fine della convertibilità dollaro-oro: il mondo precipita in un´èra di instabilità monetaria, l´inflazione dilaga, le parità tra valute oscillano paurosamente. Da allora l´oro ha perso uno status ufficiale che deteneva da secoli. A più riprese è sembrato che fosse definitivamente tramontato come investimento. I suoi svantaggi sono evidenti: un lingotto non frutta né gli interessi di un BoT né i dividendi di un´azione né l´affitto di un immobile; anzi bisogna pagare per custodirlo in cassetta di sicurezza. Ma la deregulation finanziaria e l´invenzione di nuovi strumenti speculativi ha risolto il problema. Oggi chi vuole rifugiarsi nel metallo giallo non è obbligato a comprarne quantità fisiche. I contratti futures sono promesse d´acquisto o di vendita che permettono di scommettere sulle previsioni di rialzo. La prova più evidente che la febbre dell´oro è ripartita in grande stile: proprio la settimana scorsa la Borsa di Shanghai ha inaugurato la contrattazione quotidiana dei futures in oro, un manna per i piccoli risparmiatori cinesi che non vedevano l´ora di poter speculare anche sul metallo prezioso. Perché il declino secolare dell´oro nel sistema monetario internazionale nel frattempo è stato più che compensato dalla domanda di consumo. Gioca un ruolo fondamentale l´emergere delle nuove superpotenze asiatiche, Cina e India. Dietro la febbre dell´oro c´è anche la signora Mona Bhardwaj di New Delhi, 42 anni, con la figlia Sonam (21 anni) che si prepara alla cerimonia nuziale. «L´oro - dice la mamma - è il migliore amico di una giovane sposa». Da secoli nella dote matrimoniale di una giovane indiana che si rispetti devono abbondare i monili preziosi e Sonam Bhardwaj non farà eccezione. Negli ultimi anni il boom economico ha aumentato il potere d´acquisto del ceto medio in India, in Cina, in tutte le nazioni asiatiche che hanno il mito dell´oro come "deposito" di risparmio. L´anno scorso la sola India ne ha importato 800 milioni di tonnellate, il 20% di tutto il consumo mondiale. Così la corsa all´oro si alimenta di due fenomeni diversi. Da una parte ci sono centinaia di milioni di piccoli acquirenti che lo vogliono possedere fisicamente, soprattutto in Asia. All´estremo opposto gli hedge fund specializzati in metalli preziosi consigliano alla loro ricca clientela occidentale di puntare sui futures auriferi o sulle azioni delle società minerarie perché vedono nell´oro uno "scudo" quando spira un vento di tempesta su tutti gli altri investimenti finanziari. In teoria questa febbre dell´oro dovrebbe arricchire anche noi. L´Italia è stata a lungo un leader mondiale dell´industria orafa grazie a distretti industriali come Vicenza, Valenza Po, Arezzo. Purtroppo anche in questo settore è subentrata la concorrenza asiatica. Gli orientali non si limitano a comprarlo e ad accumularlo per se stessi e le proprie figlie: lo lavorano e lo esportano. L´oreficeria made in India ha spodestato da tempo la nostra e ha conquistato la leadership mondiale. Possiamo consolarci, come cittadini contribuenti, pensando alle ricche riserve della Banca d´Italia che guadagnano valore a vista d´occhio: l´ultima stima del Sole 24 Ore le colloca vicino ai mille miliardi di dollari. Purtroppo è una consolazione virtuale. Un accordo fra le banche centrali limita la quantità di riserve aurifere che possono vendere sul mercato. E comunque la Commissione europea e la Bce non consentono che il ricavato di queste vendite sia usato per ridurre il nostro debito pubblico. FEDERICO RAMPINI