La Repubblica 12 gennaio 2008, Stefano Bartezzaghi, 12 gennaio 2008
Se le parole fanno paura
Se le parole fanno paura. La Repubblica 12 gennaio 2008. Nel 1925 un giornale americano sosteneva: il cruciverba non può attecchire in Italia, dove «quickly» si dice «precipitevolissimevolmente». La storia si è incaricata di smentire sia la premessa sia la conclusione, però in fondo è vero che a noi le parole molto lunghe fanno meno paura che ad altri popoli. In una parola - ma quanto lunga! - quell´ «ippopotamostruosesquipedalofobia» di cui parlano i giornali inglesi da noi è meno comune: i nostri leader politici, infatti, non sono particolarmente avvantaggiati da cognomi fulminei come Brown, Blair, Bush e anche andando di fretta ci concediamo le cinque sillabe di «arrivederci» anziché un singolo, o al massimo raddoppiato, «bye». Ma possibile avere paura del linguaggio? Il nemico, per esempio, non va nominato, perché nominarlo significa sempre evocarlo, renderlo presente. E´ per questo che una volta si evitavano accuratamente l´evocazione del diavolo, della sfortuna, della morte, delle malattie, della sessualità. Oggi che molti fra questi tabù sono sostanzialmente caduti altri se ne stabiliscono. Come svegliarsi con sollievo da un incubo e poi scoprire che il dinosauro è ancora lì: dietro alle parole che facevano paura perché così voleva la tradizione condivisa, insomma, si affacciano le parole che fanno paura in sé e per sé. Fra questi gli «ippopotami, mostri e termini sesquipedali»: le serpentine sillabiche, le parole lunghissime, «che la mettono giù dura». La loro mole è difficilmente aggirabile, non sempre il discorso si può ridurre a quantità manipolabile, a gioco. Temiamo che le cose assomiglino troppo ai loro nomi, e vagheggiamo di vivere in un mondo tanto semplice da essere tutto nominabile con pochi e piani fonemi. I «paroloni» sono nemici del discorso schietto: chi lo sostiene non ha ragione due volte. La prima volta perché spesso i «paroloni» consentono di nominare e distinguere cose che altrimenti verrebbero confuse. La seconda perché a ridursi a usare «paroline» ci si richiude nelle proprie fobie, e nei discorsi allusivi fatti di «Tu-sai-chi». Nessuno abbatte il nemico senza nominarlo, così come nessuno può sconfiggere la paura del buio se non può neanche immaginarsi di accendere la luce. Stefano Bartezzaghi