L’espresso 17 gennaio 2008, Federica Bianchi, 17 gennaio 2008
C’era una volta il Kenya
C’era una volta il Kenya. L’espresso 17 gennaio 2008. tempo di raccolta nelle piantagioni di tè intorno alla cittadina di Kericho. Il verde scuro delle foglie risplende contro il cobalto acceso del cielo che colora i bordi delle colline. Piccoli lotti familiari si alternano alle immense coltivazioni delle multinazionali. Ma nei campi, in tutti i campi, sono poche le persone chine sui cespugli, il sacco semipieno di foglie sulla schiena. Nel parco davanti alla stazione della polizia, invece, in centinaia si accalcano su camion scarcassati, tra materassi a fiori e gambe di letti in legno, senza soldi, in cerca di un passaggio verso casa. Sono i kisii, un’etnia del Kenya occidentale, dove molti lasciano le rive del lago Vittoria per lavorare nelle piantagioni che ricoprono le colline dei kalenjin. Hanno votato per Mwai Kibaki, insieme ai kikuyo. Pochi giorni dopo è stato chiesto loro di rientrare nelle terre patrie. "Molte famiglie sono state attaccate nelle nostre piantagioni durante la notte. In otto sono stati uccisi. una questione di sicurezza non di discriminazione", spiega Kip-Utich Kaptich, il direttore tecnico dei 14 mila ettari posseduti da Unilever. "La situazione è ancora fuori controllo e non sappiamo come andrà a finire". passata più di una settimana dall’annuncio dei risultati elettorali che hanno visto Kibaki, un kikuyo, riconfermato alla presidenza del Kenya, una tra le più vivaci economie africane e, fino a pochi giorni fa, un raro esempio di democrazia per il Continente. Ma la certezza di brogli dell’ultimo minuto - ormai condivisa, seppure con riluttanza, dagli stessi kikuyo - l’ha trasformata, per la prima volta dal 1963, in un campo di battaglia tra etnie rivali che, a 45 anni dall’indipendenza, non riescono ancora a pensarsi nazione. Anche se sono in molti a provarci, disperatamente. "Non ho mai voluto sentirmi kikuyo, soltanto keniota", spiega Elijah Kinyanjui, giornalista frelance per il quotidiano ’Nairobi Star’, mentre dà una mano agli sfollati nello stadio di Nakuru, città un tempo famosa per il suo lago dai fenicotteri rosa, e oggi, un immenso campo profughi: "Però nel 1992, tre elezioni fa, la mia famiglia è stata cacciata dal suo villaggio vicino a Molo, nella terra dei kalenjin, e allora ho dovuto per forza fare i conti con la mia tribù". Tensioni etniche, che poi hanno tanto a che fare con quelle economiche, avevano già in passato creato scontri tra i kalenjin - la tribù dell’ex presidente Arap Moi, uno tra i più corrotti leader africani - e i kikuyo durante le elezioni del 1992 e del 1997. Nel 2002, invece, l’intera nazione si era unita per cacciare dalla presidenza ventennale Moi, e aveva riposto, speranzosa, il suo futuro nelle mani del settantenne Kibaki. Ma lui, in politica dall’indipendenza, ha finito, come il suo predecessore, per assicurare benessere solo ad una parte della nazione. La crescita economica vicina al 7 per cento, che negli ultimi mesi ha costretto molti osservatori internazionali a rivalutare non solo il Kenya ma molti Stati africani, è qui creata e goduta dalla tribù dominante dei kikuyo: lavoratori indefessi, non sempre onesti, un tempo pastori, oggi uomini di commercio e di affari dall’istinto cinese. Negli ultimi tre anni Nairobi, la capitale, è rifiorita: strade senza buche, palazzi nuovissimi, un centro commerciale costruito in sei mesi che rivaleggia con i più bei shopping mall americani, connessioni wireless in tutte le aree più ricche, un’autostrada scintillante che la collega alle terre turistiche dei Masai in sole due ore. Eppure procedendo verso nord, oltre Nakuru, il paesaggio cambia. E si ritorna nella vecchia Africa. Le case in mattoni lasciano il posto a quelle in terra battuta. Gli autogrill dalle insegne fosforescenti si trasformano in tavoli di legno e sedie in paglia. Diminuiscono le vacche nelle radure, e aumentano i piccoli fazzoletti di mais e canna da zucchero. Le Terre Centrali, tradizionalmente abitate dai kikuyo, lasciano il posto ai campi dei kalenjin, dove le pannocchie sono già state raccolte in pile coniche. Ed è stato proprio questo lembo occidentale della Rift Valley, pochi giorni dopo l’annuncio dei risultati elettorali, ad essere scarabocchiato da centinaia di rivoli grigiastri che si inerpicavano verso il cielo con messaggi molto diversi tra loro. Alcuni provenivano dai campi bruciati in preparazione di un nuovo raccolto. Altri dalle case dei vincitori, date alle fiamme da kalenjin arrabbiati per avere perso, con l’inganno, la loro chance di un futuro migliore. "Speravano tutti che una vittoria di Raila Odinga avrebbe finalmente portato il benessere anche da queste parti. La gente è disperata", spiega il reverendo Korgot della Chiesa Cheplaskei, a pochi chilometri dalla cittadina di Eldoret. E si riferisce sia alla disperazione attuale - poco cibo, poca benzina, prezzi triplicati per ogni cosa e negozi irrimediabilmente chiusi - che a quella di sempre. Con le elezioni del 2002, le posizioni di rappresentante governativo regionale, sindaco, capo della polizia, e persino molti posti di burocrate pubblico sono state occupate dai kikuyo, che hanno minacciato, provocato e poi cacciato i loro predecessori. Ai kalenjin e ai luo, che fin dai tempi coloniali hanno prediletto una carriera nella pubblica amministrazione a un’attività in proprio, è stato chiuso l’accesso alle posizioni di comando. In caso di dispute, non possono contare sulla polizia. E poi ci si è messo il crescente divario economico con l’etnia di Kibaki, che li lascia invidiosi, impotenti e vendicativi. "Se uno di noi aprisse un negozio nelle Terre Centrali, lo troverebbe bruciato il giorno dopo", dice sui gradini della chiesa un maestro di scuola che non rivela il suo nome per paura: "Perché loro invece vanno dove vogliono in Kenya, comprando terre con i soldi rubati al governo?". Insieme a lui e al reverendo, ci sono una decina di persone venute per festeggiare il matrimonio di Daniel Sang e Sally Korir. Gli invitati avrebbero dovuto essere centinaia. Ma davvero non è stato possibile. A poche decine di metri dalla sposa in abito bianco, lungo la strada che porta a Nairobi, giace il braccio alzato verso il cielo di un cadavere carbonizzato, lasciato lì da quattro giorni, accanto a un minibus devastato dalle fiamme, quasi a monito che la vendetta potrebbe arrivare presto. Se così sarà, il Paese scivolerà nella guerra civile. Ed è la paura a regnare ancora nella valle. Lungo la strada principale, scivolano su quattro ruote carovane scortate dall’esercito di famiglie kikuyo in fuga. Passa un carro merci con lo sportello aperto. La gente ha bisogno di aria. Passa una macchina con una bara legata sul tetto. Passa un minibus che dondola a destra e a sinistra sotto il peso dei mobili e degli uomini. un esodo, uno di quelli che abbiamo visto tante volte in foto ingiallite del secolo scorso. Uno di quelli che ti lascia sgomento, appeso tra speranza e timore. Si spostano in migliaia. E chissà quando torneranno. Non tutti sono poveri. Anzi. soprattutto la nuova classe media a essere stata colpita. "Avevo appena investito due milioni di scellini (circa 32 mila euro) in alcune case da affittare", racconta Kathrine, 29 anni e tre figli, mentre aspetta nel cortile della stazione centrale della polizia di partire per Nairobi, dove l’attendono alcuni parenti: "Mi hanno bruciato ogni cosa. Ho perso tutto, tranne il mutuo da pagare". E lo dice, così, senza tremori, senza gridare. Con quella rassegnazione dignitosa di cui noi occidentali non ci capacitiamo. In zona restano solo i più poveri. Quelli che non hanno più niente e nessuno, e dipendono dagli aiuti delle organizzazioni nazionali e internazionali arrivate in massa nella zona, Medici Senza Frontiere i primi stranieri. Non manca nulla: cibo, acqua, coperte e medicine. Ma ogni giorno si scopre un nuovo gruppo di profughi. Duecentomila finora. E oltre mille sono i morti. I campi intorno a Eldoret sono vuoti. La calma sa di terrore. Qualcuno potrebbe arrivare da un momento all’altro con un machete o un secchio di alcol, e non c’è riparo. Tetti di lamiera sventrati e anneriti dal fuoco si alternano a case abbandonate in fretta. Una macchina della polizia si allontana velocemente da una casa. Tra le risa, gli agenti portano via un mucchio di vestiti e utensili. Sono passati tre giorni dall’inizio delle violenze: il saccheggio è cominciato. Poco lontano, ardono ancora le ceneri della piccola chiesa di Kiamba dove sono state bruciate vive cinquanta persone, la maggior parte bambini, incluso un bebè di due mesi che la mamma stava cercando di portare in salvo e due braccia senza pietà hanno rigettato tra le fiamme. "Ho provato a salvarla, ma non ho potuto", racconterà Mary, così dice di chiamarsi, dal suo letto nell’ospedale di Eldoret. "Che Dio mi perdoni". Tra le ceneri della chiesa si trovano ancora una valigia carbonizzata, qualche scarpa da ginnastica, un mucchio di coperte bruciate, tante tazze di latta. E l’odore di morte. Intanto il sole arancione si abbassa sull’orizzonte. Scende il buio, tenendo per mano il freddo. Un contadino kikuyo di mezza età s’affretta a caricare le pannocchie sul camion. "Sono fuggito in città, sono tornato solo per portare in salvo il raccolto", spiega Benjiamin Kibui Thananga, e poi aggiunge: "Le elezioni in Kenya sono una questione etnica. Siamo obbligati a eleggere uno dei nostri per sentirci sicuri. Non importa se onestamente o meno. Con Kibaki la polizia è dalla nostra parte". In città, il cortile della stazione di polizia e quello della cattedrale sono presi d’assalto dagli sfollati in cerca di un rifugio. Centinaia di calzini, giacchette e magliette a mezze maniche sono appese ad asciugare sulla rete di cinta. "La tensione si sta allentando ma se i kikuyo cominceranno a vendicarsi, o se il processo di mediazione tra Kibaki e Odinga in Nairobi non produrrà una soluzione, il caos ricomincerà in poche ore", racconta il vescovo di Eldoret Cornelius Korir. Rabbia e risentimento ribollono sotto la superfice, a dispetto di qualsiasi appello. Neanche la mediazione di John Kufuor, presidente del Ghana e dell’Unione Africana, finora è riuscita a convincere i leader rivali a un accordo. E la nomina del governo, decisa da Kibaki, potrebbe essere la scintilla per la nuova fiammata. A Kisumu, la terza città più grande del Paese, e la capitale della terra dei luo, domenica il mercato era deserto. Eppure è il più grande della regione. Ma nella notte un uomo a cui era stata incendiata la casa e il magazzino, ha dato fuoco a sua volta a una serie di laboratori, con l’aiuto della polizia locale che ha sparato a caso sulla folla subito dopo il rogo, uccidendo un uomo e ferendo tre ragazzi. "Stavo solo aiutando il mio vicino a chiudere il negozio", spiega Kevin Osieno, 15 anni, nel suo letto nell’ospedale provinciale di Kisumo: "Mi hanno sparato nei genitali e non potrò mai avere una famiglia". Due giorni dopo, la via Oginga Odinga, il corso principale di Kisumu, dove ogni bottega è stato bruciata, è segnata da una lunghissima fila umana. "Non sappiamo quando finirà il caos in Kenya", racconta Evans Abuto, un ingegnere di quarant’anni: " meglio ritirare tutti i soldi e fuggire". Dalle colline a nord di Kisumu, dove acqua corrente ed elettricità sono ancora un sogno lontano, era fuggito mezzo secolo fa in cerca di una vita migliore il padre del candidato presidenziale americano Barak Obama. Figlio di un burocrate dell’amministrazione coloniale britannica, era andato a Nairobi in cerca di un buon lavoro. Diventato un impiegato delle ferrovie, incontrò due volontarie americane, che lo convinsero a frequentare un’università per corrispondenza. I buoni risultati lo portarono poi all’ateneo delle Hawaii dove conobbe la futura madre di Obama. Lui, Barak senior, ormai un esperto formato ad Harvard, ritornerà nel suo Paese natio come economista. La sua tomba è nel giardino della sua vecchia casa nel minuscolo villaggio di Nyang’ona Kogelo, un caposaldo luo che adesso vive in stato d’assedio. Lì sua madre, nonché nonna di Obama junior, Mama Sarah, 85 anni, ancora vive con due dei suoi quattro figli. Seduta nell’aia, mentre stacca i chicchi dalla pannocchie per farne farina, fa campagna elettorale per il nipote lontano. "Barak non è corrotto, ed è un buon ascoltatore. Prima capisce quali sono i problemi e poi trova una soluzione insieme a te", spiega: " il leader di cui avremmo tanto bisogno anche noi qui in Kenya". Federica Bianchi