Parrini, 13 gennaio 2008
ARTISTI PER LAURETTA PIù AMPIO
ABATE Claudio. Roma 1943. Fotografo. «Schivo, silenzioso, sempre spettinato. Una specie di genius loci dell’avanguardia […] Con gli artisti c’è nato: figlio di un pittore amico di De Chirico, cresciuto a via Margutta, a 12 anni ha già in mano la sua prima macchina fotografica, a 16 lavora per il Press Service Agency, a 18 è assistente di Eric Lessing, nome di punta della Magnum […] Oggi è uno dei fotografi più ricercati dagli artisti europei, ha nel suo studio decine di migliaia di immagini, rarissime, che testimoniano i passaggi chiave di quell’effervescente momento che va dal 1968 al 1978 […] Con la sensibilità di un artista e l’istinto di un fotoreporter ha preferito gli eventi alle opere (’Non c’è niente di più noioso che fotografare un quadro”). Macchina a mano, pellicole sensibili, luci naturali, ha documentato la forza creativa di un mondo che si affidava alla vita effimera di una performance, di un’installazione, di un’azione nata per gioco. L’avremmo dimenticate se non ci fosse stato lui, in agguato, a fissarle per sempre» (Alessandra Mammì, ”L’Espresso” 6/12/2001) • «Ha confessato a Mario Codognato: ”Preferisco fotografare le opere d’arte, gli artisti si muovono, sono nervosi”. Il bello è che le sue immagini sono nervosissime e le opere ci si muovono dentro, anzi, vivono ancora. Fremono nella luce spesso notturna. Ha ”solarizzato” la sagoma di De Chirico, alla Man Ray, imprimendo la pellicola senza ausilio della macchina, poi ci ha messo sullo sfondo Gino De Dominicis, creando un’opera concettuale: un filo. Sì, perchè Claudio Abate, fotografo dalla nascita è prima artista che testimone princeps di quel momento storico in cui l’Arte Povera si fa Installation & Performance art, come certifica il volume Photology. Ha preso in mano la ”macchina” là dove l’aveva lasciata Mulas. Dalle prime impacchettature acerbe di Christo ai compari di San Lorenzo, fotografati come corposi ectoplasmi, sullo sfondo di nuvole ancora Valénciennes. Dal ”ragno” Pascali a Kiefer, da Mauri a Jan Fabre, alle polacchine usurate di Ontani, messe in cerchio, come una domestica avventura-cerimonia di Land Art alla Long. Là dove i corpi stessi degli artisti si bloccano, si cementano in ”opera d’arte”. dunque l’arte che è fotografia di un’istante, più che non la fotografia un’arte che documenta l’attimo dell’arte. L’ha capito Giulio Paolini, quando gli scrive che egli gli ha permesso di ”rivedere” certe sue opere, di trovarle diverse, perchè Abate non documenta supinamente, inventa lui l’opera. E Paolini lo incorona: ”se fossi fotografo non mi tratterrei da rifotografare le tue fotografie”. All’infinito: felice ouroboros. Scelta opinabile, frustrante, ma d’autore: non svelare in didascalia i luoghi storici ove ha rubato e ”riscritto” queste opere, ci pensi la memoria o la fantasia. Eppure chi ha un po’ di memoria (molte di queste icona son parte dell’archivio vivente Villa Medici) suggeriscono un’inquietante verità: che certe opere funzionano molto meglio in questi scatti di nobile ospizio, che non nella loro verità nuda. Un esempio? Quel bidet di Micol Assael, che levita come una santa, ingollato d’acqua, e sotto un trio di bicchieri, che accoglie il pianto del Tempo» (Marco Vallora, ”La Stampa” 26/11/2007).
ACCARDI Carla Trapani 9 ottobre 1924. Pittrice. «Lo spirito dell’Accardi: avventuroso, alieno dal guardarsi alle spalle e proiettato, sempre, verso una frontiera ulteriore, verso un domani da conquistare, verso un passo che possa confermare la sua vocazione, tante volte dichiarata, di ”stare a fianco della contemporaneità”, di amarla e interpretarla nel suo farsi, nel suo mutare, rischiando ogni volta qualcosa, mettendo in gioco ogni volta il patrimonio già acquisito. [...] un infinito repertorio del suo segno, raccolto sul povero supporto della carta [...] come era stato al cuore degli anni Cinquanta - in bianco e nero; di quei suoi segni che le sono stati compagni per oltre mezzo secolo. Nei quali - dapprima sulla scorta di Capogrossi, ma poi presto liberandosi da quella lezione - Accardi ha immesso tutto lo slancio di un animo che ha inteso aggregare sulla pagina fantasie e ”figure” inattese, sconosciute, irragionevoli. Segni che, rispetto al crampo aspro e monadico di Capogrossi, tesero presto, nel loro aggregarsi insieme, e nel cercar sorprese da quella loro unione, da quella sorta di danza che tutti assieme intrecciavano sulla superficie, costituirsi quasi in una famiglia di ”elementi-segni”, come subito intese Michel Tapié, gran padre dell’informel francese, fautore fra fine anni Quaranta e avvio dei Cinquanta della nuova lingua dell’arte che prendeva luogo a Parigi. Tapié consegnò allora per la prima volta Accardi a quella platea internazionale che da quel punto in avanti l’avrebbe accolta: prima presentandone i Negativi alle storiche mostre ”Individualités d’aujourd´hui”, nel ”55, e Structures en devenir, l’anno seguente, poi registrando il progressivo abbandono dell’Accardi della dialettica secca del bianco e nero per accendere ”i valori assoluti di altri colori [attraverso i quali] mi propongo di assorbire in modo completo le facoltà percettive” di chi guarda. Vennero allora prima un rosso di fiamma, poi gli azzurri e i viola, i verdi e gli aranci a saturare i segni e i nuovi ritmi ai quali le loro imprevedute assise s’abbandonavano, ventilati sulla pagina pittorica come da un´improvvisa folata di vento. Fintanto che quei segni non vollero staccarsi dalla tela dove giacevano, e prendere a muoversi più liberi nell´ambiente: si scrissero allora su rotoli, o su coni di sicofoil, una pellicola trasparente e leggera capace di materializzare i colori nello spazio, lasciandoli come sospesi nel nulla. Venne così la grande Tenda, e poi l’Ambiente arancio, col pavimento tutto tappezzato dai segni colorati, ed altre opere che allora, semmai, progettò senza eseguirle [...]» (Fabrizio D’Amico, ”la Repubblica” 20/9/2004).
ADAMI Valerio Bologna 17 marzo 1935. Pittore. «[...] è un artista che racconta. La sua pittura (e i disegni, naturalmente) è lettura, scrittura, narrazione del mondo. E della vita, intesa come rappresentazione del mondo, sintagma tracciato nello spazio d’una rappresentazione collettiva che tutti viviamo. I suoi quadri si possono guardare come scene d’un teatro dove si sviluppa la nostra storia, una pièce che noi, al tempo stesso, guardiamo e viviamo e che occorre interpretare e decifrare. Di questa rappresentazione l’artista dà qualche traccia privilegiata che i suoi occhi vedono o che la sua memoria conserva; frammenti d’un tutto di cui dobbiamo riempire le assenze per ritrovare un senso che ci sfugge. Come un rebus, un enigma, una sciarada. In questo senso l’opera di Adami è estremamente rappresentativa del nostro tempo, d’una cultura in cui circola l’idea della conoscenza (o della formulazione conoscitiva) frammentaria di Nietzsche come l’idea dell’epifania joyciana, il sentimento dell’assurdo di Kafka, la pluralità dell’essere di Pessoa; la varietà d’infinite combinazioni basate su alcune variazioni nella musica di Schönberg come nella pantomima diretta da un invisibile regista nel teatro di Beckett» (Antonio Tabucchi, ”Corriere della Sera” 25/3/2006). «Dal cromatismo intenso e dal segno incisivo» (Leonetta Bentivoglio) «Si forma all’Accademia di Brera a Milano, e agli anni di studio fa seguire soggiorni in Inghilterra e in Francia, negli anni in cui forme espressive come il fumetto, la pubblicità, la musica e l’abbigliamento giovanile stanno venendo potentemente in primo piano. Dopo un iniziale orientamento espressionista sensibile all’esempio di Bacon (1958), e un periodo (1960) improntato alla bellissima, eversiva, primigenita arte gestuale del momento, il suo stile prende la forma per la quale è soprattutto noto: quella di un’enunciazione narrativa, fantastica e umoristica, nel segno del fumetto. Al modellato tradizionale dell’olio, sostituisce i campi uniformi dell’acrilico separati da forti, caratteristiche, contornature nere: due elementi che si rifanno esplicitamente all’impatto visuale dei cartoons. D’altra parte, la semplificazione delle forme caratteristica del fumetto viene reinterpretata, spingendola verso un’astrazione geometrizzante, un’elegante levità di linguaggio. Rispetto all’esempio di Lichtenstein, di cui evidentemente tenne conto, la sua è una formula più marcatamente ironica, anzi improntata a una sofisticata, intellettuale negatività: con il suo risolvere la pittura in forme ispirate, con molta leggerezza e umorismo al fumetto, enuncia sottilmente l’impossibilità dell’arte, la sua fine, quel suo imminente risolversi, forse, in qualche altra militanza avvertita come più seria [...] Il museo, La galleria, il dipingere vengono sentiti come sorpassati, storicamente finiti, come dimensioni alle quali è impossibile rapportarsi senza distacco e ironia [...] Nel corso degli anni Settanta, la nota garbatamente dissacrante, smitizzante, del suo lavoro di Adami risuona dalle pareti delle più prestigiose gallerie e istituzioni museali del mondo. Anche questo fa parte del gioco: vedere a quale livello, dentro quali istituzioni e situazioni consacrate si riesce a far sentire una voce che in qualche modo smentisce l’aulicità della pittura, il suo prendersi troppo sul serio. Portato in alto da un curriculum espositivo ineccepibile (negli anni Cinquanta e Sessanta, le gallerie San Fedele, del Naviglio e Marconi a Milano, l’Attico a Roma, il Cavallino a Venezia), a partire dagli anni Settanta può lanciare autorevolmente la sua formula dalle pareti della Gallerie d’art moderne e della Maeght di Parigi, oltre che dalle principali gallerie e istituzioni pubbliche di Stoccolma, Ulm, Berna, Duesseldorf, Zurigo, Tokyo, Chicago, New York: un’ampiezza di riconoscimenti esaltante, che fa di lui, in un decennio, un classico della seconda metà del secolo» (Gloria Vallese, ”Arte” n. 12/2000). «Tra i libri di riferimento della mia formazione ci sono stati gli scritti in cui Wagner esprimeva la sua opposizione alla musica dell’epoca e alla mondanità dell’arte, tema oggi attualissimo e tensione che condivido in pieno. Non solo: in Wagner ritrovo il mio legame con l’India, paese in cui ho vissuto e lavorato, e culla di un pensiero che l’opera wagneriana fu tra le prime a svelare […] Wagner scriveva il libretto e solo in seguito componeva la musica. Così io creo il disegno e poi lo riempio di colore. Il disegno sta alla parola come il colore al suono. Se il disegno delinea un pensiero, il colore, come la musica, offre temperature emotive» (Leonetta Bentivoglio, ”la Repubblica” 16/3/2003). Vedi anche: ”Capital” n. 1/2003.
ALBANESE Giovanni Bari 22 giugno 1955. Artista. Scenografo. Costumista. Scrittore. «Autore di opere surreali e fantasiose costruite assemblando ”tutto quello che gli altri buttano” […] Nel suo grande atelier di San Lorenzo a Roma sono accatastati i suoi pezzi unici […] il pianoforte a coda incendiato da centinaia di lampadine rosse, il Pippo volante, un insieme di lamiere, ruote e molle intitolato Mio padre. Questi vecchi elettrodomestici, pezzi di ricambio fallati, pupazzi colorati, lampadine luminescenti sono stati la sua terapia personale alla balbuzie che lo aveva colpito ad otto anni dopo la morte del papà. ”Ho combattuto con questo difetto per tutta la mia infanzia e la mia giovinezza. Ho perfino discusso la mia tesi di laurea in architettura, balbettando […] Andy Warhol diceva: ”Cos’è l’arte? Non lo so, però so che un centimetro dopo o un centimetro prima è merda’. Spero di aver azzeccato il centimetro”» (Federica Lamberti Zanardi, ”il Venerdì” 19/4/2002). «Il divo duchampiano del momento, acclamato come una sorta di Jesus Christ Superstar, specialmente da quello che una volta veniva chiamato ”il gentil sesso”. […] ancora giovane, pieno di energia e di immaginazione, e non sarà mai secondo a nessuno» (Costanzo Costantini, ”Il Messaggero” 22/11/2001). «S’era capito subito che era un tipo a sé. Almeno da quando invitato a Gibellina nel 1993 per la collettiva dal celebrativo e monumentale titolo ”Paesaggio con rovine”, si mise a costruire una ”Macchina per ascoltare il vento”. Come un Archimede Pitagorico prese un basamento, due immensi coni d’ottone, due enormi cuffie di vetro e orientò il tutto verso il cretto di Burri, che copre come un sudario i resti della città distrutta dal terremoto. E davvero catturò il vento. Funziona ancora. Le sue opere più sono surreali e strampalate più funzionano. Funzionano i quadri fiammeggianti (che poi sono anche sedie, lampadari, oggetti e intere pareti), funziona la mamma robot che spinge una carrozzina simile a un sidecar da ultima guerra, funzionano gli alambicchi che producono scariche elettriche a ritmo di rap (’Colpo di fulmine”), funziona Pippo acrobata che fa ”evoluzioni” sulle note di Volare, funziona persino il frigorifero che recita le tabelline: ”Si chiamerà ”Salto di qualità’, storia di un computer che aspira a diventare un frigorifero” […] O ”Shampoo 70”: un intero, desueto negozio di parrucchiere coi divanetti in finta pelle marroncina e i caschi vecchio stile. Altoparlanti trasmettono la radiocronaca della morte di Pasolini. Si alternano le voci del giornalista, le testimonianze degli amici, l’analisi dell’epatologo che spiega il meccanismo della morte, l’intervista alla madre, le ultime registrazioni del poeta. Ma dai caschi arrivano le canzonette e lo sciocchezzaio da Anima mia […] Piace a Bonito Oliva ”la felice mescolanza di macchine celibi di duchampiana memoria, di assemblaggi alla Nam June Paik, fino al gusto neoclassico e allo stesso tempo mediterraneo di Pascali. Le sue installazioni sono teatri di posa, set cinematografici che inglobano dentro di sé l’architettura circostante. Il tutto in un artista che si pone il problema della comunicazione e ritiene che in una società di massa l’arte debba produrre ascolto” […] Nel 1996 fa le scenografie e i costumi per il pazzesco film di Giovanni Veronesi Silenzio si nasce, e per un pelo non vince il ”Ciak d’oro”: ”Anche se i costumi – racconta – erano solo tubi di gomma, giganteschi cordoni ombelicali intorno a Paolo Rossi e Sergio Castellitto”. Con il suo amico e omonimo attore Antonio Albanese, s’inventa una installazione scenica fatta tutta di scheletri di vecchie calcolatrici Olivetti. Pirameide rumorosissima, alta quasi sette metri, che diventa la fabbrica del terribile imprenditore Perego nello spettacolo Giù al nord […] Deve molto, dice, alla mamma severissima insegnante di fisica, alla inutile laurea in architettura e alla diffidenza di chi nell mondo dell’arte gli ha sempre rimproveratoun eccessivo eclettismo» (Alessandra Mammì, ”l’Espresso” 18/2/1999).
ALVIANI Getulio Udine 5 settembre 1939. Artista. «Uno dei maggiori protagonisti della ricerca artistica degli anni Sessanta indicata come Arte Programmata e Cinetica. [...] nel corso degli anni si è interessato non solo all’arte visiva ma anche alla grafica, alla teoria, all’architettura e al design, confrontandosi con il ruolo di curatore, collezionista e, tra il 1981 e il 1985, con quello di direttore del Museo d’arte moderna di Ciudad Bolivar, in Venezuela. [...] ”Il mio interesse si concentra soprattutto verso la progettazione che, come la conoscenza umana, è basata principalmente sull’occhio grazie al quale apprendiamo circa il 90% delle informazioni. Il procedimento che porta a progettare un ago piuttosto che una porta-aerei segue sempre la stessa prassi e il mio approccio al progetto è quindi sempre lo stesso, sia che si tratti di progettare uno spazio, un evento o una vita. Per questo motivo affronto l’arte pura come l’architettura. L’arte pura è solo più libera, perché ti permette di andare dove vuoi, mentre l’architettura ha bisogno di essere ancorata a una base. [...] La ricerca si svolge sempre nello stesso modo. L’universo è formato da sette elementi e tutto dipende da come sono combinati. L’apporto dell’uomo è di accostarli in maniera inedita, in modo da individuare combinazioni più innovative e progressive. La mia attitudine è quindi di ordine scientifico poiché nel mio lavoro cerco di ampliare il campo del percettibile; parto dagli occhi per andare direttamente al cervello. [...] Negli anni `60, per esempio, insieme a Germana Marucelli ho realizzato, quasi per gioco, degli esperimenti nell’ambito della moda. Germana ha fatto stampare un mio disegno su tessuti di diverso tipo constatando che alcuni ne esaltavano la staticità, altri il movimento. Oggi se mi richiedessero di progettare altri indumenti cercherei di individuare la possibilità di preservare il corpo dalle oscillazioni termiche senza l’ausilio degli abiti. Il nudo rappresentato nel lavoro Grado Zero o Bat(h)ape che ho realizzato negli anni `60 è il punto di partenza di questo studio. [...] Ho vissuto la mia infanzia in Friuli e sono sempre stato molto attratto dai paesi vicini come la Slovenia, la Jugoslavia di allora. Lo zio che mi ha allevato era austriaco e così ho maturato una propensione verso la Mitteleuropa che mi attraeva più dello sfavillare delle luci di Parigi. Ho sempre pensato che la Mitteleuropa fosse il fulcro della cultura che è nata proprio nelle zone vicine a quelle in cui sono cresciuto, mi riferisco alla valle del Danubio, che va dalla Germania fino agli stati dell’Europa orientale. Quegli stati mi attraevano anche perché era molto difficile arrivarci, passare il confine per andare a Lubiana da Udine (dove vivevo), era un’impresa. [...] Quando ho iniziato a lavorare - era la fine degli anni Cinquanta - la tecnologia cominciava a mostrare tutte le sue potenzialità. Noi che credevamo nella sollecitazione del cervello attraverso la possibilità di allargare il campo del percettibile, vedevamo nella tecnologia una grande risorsa. Oggi abbiamo una tecnologia avanzatissima che ci permette di comunicare in tempo reale con tutto il mondo, ma che viene sotto-utilizzata per scopi infimi, manipolata per avallare scelte e operazioni catastrofiche. E non posso non pensare a quanto sta accadendo oggi e che sta stravolgendo il mondo. Il feticismo delle immagini ha eroso la capacità critica, che è fondamentale per la crescita dell’uomo. Max Bill diceva che la vera forza di un artefice è la sua forza critica, che deve essere indirizzata prima di tutto verso se stesso. Una forza che deriva dell’acutizzazione dell’occhio e del cervello e che nasce dal rispetto per le cose, tutte le cose del mondo» (Tiziana Casapietra, ”il manifesto” 27/10/2004).
ALMAGNO Roberto Aquino (Frosinone) 1952. Scultore. «[...] ha letto e guardato, a lungo, i percorsi maggiori della scultura contemporanea: ma li ha poi potuti come dimenticare, in grazie a due insegnamenti a lui più prossimi, quelli di Fazzini, e di Arturo Martini. Di Fazzini è stato allievo; e scende, all’inizio, proprio da lui quel bisogno, poi sempre rimasto vivo, di una dismisura, di uno slancio, di un vento che scuote gli assetti, e sradica la scultura dal vincolo alla terra, per proiettarla in un altrove. Di Martini, non un’opera sola (se non forse la Donna che nuota sott’acqua, e le sue folgoranti intuizioni: il suo sgusciare via dal volume e dallo spazio che rinserra la forma, il suo infinito spargersi attorno), ma gli ultimi ”comandamenti”: ”fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione»; e gli ultimi pensieri, tesi alla ricerca di uno ”spazio, che è base e realtà di ogni arte” (ma pensieri e propositi, anche, di Fazzini: così che Paola Bonani ha di recente potuto giustamente citare per Almagno questo passo dello scultore marchigiano: ”Voglio fare statue che sembrino ascendere al cielo con l’impeto e piene d’armonia. Arriverò a realizzare non corpi umani, ma figure di spiriti umani che resteranno perennemente fra gli uomini come figure di altrettanti stati d’animo universali”)» (Fabrizio D’Amico, ”la Repubblica” 27/3/2006).
AMARI Claudia Millesimo (Savona) 24 marzo 1955. Scultrice. «Prima e unica scalpellina della Veneranda fabbrica del Duomo, il cantiere perpetuo che dal 1386 si occupa del restauro e della conservazione della basilica meneghina, è conosciuta soprattutto per i suoi studi sulla cinetica marmorea, una tecnica ispirata alla moviola che giocando sulle trasparenze del minerale di Carrara fa intuire il movimento della statua […] Le sue opere più ambite, specialmente da petrolieri arabi e imprenditori giapponesi, sono i ritratti in creta bianca. Un materiale difficile da lavorare a mano nuda utilizzato in campo ceramico con la ruota che sembra una pietra calcarea siciliana anziché una terracotta. Con l’aggiunta di pigmenti naturali, poi, è possibile ottenere sfumature di ogni colore per impreziosire i busti dei rampolli […] Una testina che richiede solo qualche ora di posa nell’atelier di via Orti non è nemmeno troppo cara. Dai 2.500 euro in su per ritratti tridimensionali che arredano salotti e giardini» (Silvia Bombelli, ”Panorama” 14/11/2002).
AMATO Vincenzo Palermo 30 marzo 1966. Artista. Attore. «Trasuda sicilianità Vincenzo Amato, che si porta dietro la definizione di ”attore feticcio” di Emanuele Crialese (’quella parola, feticcio, proprio non mi piace”), prima con Once We Were Strangers, poi con Respiro e ora grazie a Nuovomondo [...] è [...] in America, che ho conosciuto Crialese. Io sono arrivato negli Usa come scultore, lavoro il ferro, lui come regista apprendista che non aveva trovato posto allo Sperimentale di Roma. [...] Che tipo di attore è Vincenzo Amato? ”Un artista artigiano, uno abituato a lavorare sodo al personaggio e al film fin dalla ideazione. Non mi interessa diventare una stella del cinema né fare i soldi [...]”» (Leonardo Jattarelli, ”Il Messaggero” 21/9/2006).
ANCESCHI Giovanni Milano 12 settembre 1939. «[...] è un incrocio, un trivio o più probabilmente un quadrivio: arte programmata, scuola di Ulm, grafica di pubblica utilità, insegnamento universitario, dal Dams di Bologna allo Iuav di Venezia. La sua persona ha attraversato, ed è stata attraversata, da mezzo secolo di cultura italiana, quella che ha praticato l’innovazione dei linguaggie delle forme espressive nel modo più utile e sintetico: mediante il fare. Anceschi rappresenta la linea lombarda, come recita il titolo di un libro del padre, il grande Luciano, filosofo, studioso di estetica. [...] ha studiato filosofia, a Milano, con Enzo Paci e Cesare Musatti. ”Cominciammo il corso commentando Le meditazioni cartesiane di Husserl, un testo arduo che Paci ci spiegava e discuteva con noi. Musatti si dedicava in quegli anni, parlo della metà degli anni Cinquanta, allo studio della Gestalt. Tuttavia nel 1957-58 ho detto amio padre: ”Non mi laureo, vogliofare il pittore”. Mi ha risposto: ”Devi imparare a disegnare”. E così mi ha portato da Achille Funi che insegnava a Brera”. Ecco il primo incrocio di Giovanni Anceschi: da una parte l’arte, dall’altra la filosofia. Sceglie l’arte. ”Frequentavo Brera come uditore. Ho imparato a fare l’affresco. Lì ho incontrato i futuri membri del Gruppo T, erano allievi di Funi. Conoscevo, per via delle frequentazioni di mio padre, anche Baj e Fontana. A un certo punto ho fatto anche una mostra con Baj a Parigi”. L’arte cinetica e programmata è stata una delle più affascinanti esperienze dell’arte italiana: il movimento, l’uso della luce, il coinvolgimento del pubblico, la mobilitazione dei cinque sensi. La sua influenza sul design, la grafica, la fotografia italiana degli anni Sessantaè stata notevole: Bruno Munari, Enzo Mari, Manfredo Massironi, Joe Colombo. La computerart, l’arte percettiva e interattiva vengono da lì. Umberto Eco ne è stato uno dei teorici. ”Alla fine degli anni Cinquanta abbiamo fatto la prima mostra, alla Galleria Pater. Abbiamo venduto tutto, e il gallerista ci ha detto: fate cinque mostre. Allora abbiamo fondato il Gruppo: T come tempo. Lavoravamo in sintonia con i gruppi francesi.Avevamo un’idea, cambiare il mondo con l’arte. Studiavamo molto, discutevamo, scrivevamo manifesti. Siamo durati sino al 1968, almeno ufficialmente; per me il GruppoT non si è mai chiuso”. Nel 1962 Anceschi è andato a studiare a Ulm. Perché? ”Pensavo fosse importante, in fondo non avevo mai smesso di farlo anche con il Gruppo. E poi Gillo Dorfles mi disse: ”Vai a Ulm, c’è una nuova scuola diretta da un argentino, Maldonado. Mi indirizzava a studiare design e invece seguii comunicazione visiva”. Ecco l’altro bivio,in un certo senso una specie di deviazione: dall’arte alla scienza dei segni. Non è così? ”A Ulm, la nuova Bauhaus, c’è stato l’innamoramento per la semiotica. Bonsiepe, in parallelo con Roland Barthes, aveva avviato la rinascita degli studi”. Ma perché ha rinunciatoa fare l’artista? ”Nessuna rinuncia. Noi pensavamo che l’attività artistica fosse un’attività intellettuale. Nella prima mostra del Gruppo T c’era anche una parte teorica, con le immagini dei lavori e gli scritti dei nostri predecessori: Klee, Kandinskij, Boccioni, Brancusi, Manzoni. Prendevamo alla lettera le parole delle avanguardie: faremo delle opere con dentro la luce elettrica. E il rapporto tra arte e vita. Poi è venuto il Sessantotto”. Lei dov’era? ”In Algeria. Seguivo gli avvenimenti del Maggio francese alla radiolina”. Come c’era arrivato? ”Da Ulm. Dopo 5 anni, sono andato in Algeria con una collega per lavorare all’immagine coordinata dell’ente del petrolio algerino, l’avevano appena nazionalizzato”. Da artista a studente, da studente a grafico? ”C’era il terzomondismo, e poi Maldonado parlava dell’intellettuale tecnico. Non ho mai pensato che il design o la grafica sostituissero l’arte; volevo solo fare qualcosa di altrettanto importante. La parola che circolava all’epoca era: cambiamento radicale; e poi: rivoluzione. Abbiano cambiato il colore delle stazioni di servizio dell’Algeria. C’erano le insegne e i colori delle compagnie straniere, e noi abbiamo dato il bianco a tutti gli edifici lasciando solo un paletto nero con il marchio SH. Ci sembrava un grande cambiamento”. E poi? ”Sono tornato in Italia negli anni Settanta. Argan e Menna mi hanno chiamato a Roma, avevano aperto un corso di Disegno industriale e comunicazione visiva. Ho iniziatoa insegnare Basic design, una cosa che aveva a che fare con l’arte, con tutte le mie esperienze. Allenavo gli studenti a padroneggiare problemi formali. Il maestro era stato uno degli ispiratori del Gruppo T, Bruno Munari, l’unica figura che aveva lavorato su questo design di base”. Dietro alla nascita del design italiano ci sono le avanguardie del primo Novecento, figure anomale come Munari, ma anche le rapide trasformazioni della società italiana. ”L’impegno politico era dominante. Si faceva un insegnamento pratico: usare i caratteri, come disegnare e stampare manifesti. Io stesso ho disegnato il logo di Potere operaio con Fabio Bonzi; me lo aveva chiesto Nanni Balestrini”. Arte e politica s’incrociavano? ”A Roma ho conosciuto Adriano Spatola e Giulia Niccolai, per loro ho inventato la testata di TamTam, la rivista di poesia. Avevo iniziato a vivere con Milli Graffi, la mia compagna, poetessa lei stessa. Ho attraversato quel decennio seguendo due itinerari paralleli: letteratura e politica, basic design e politica. Ho anche disegnato il logo per la Camera di Commercio di Roma”. L’itinerario di Anceschi in realtà è circolare: avanza retrocedendo. Ma è anche come una valanga di neve che ingrossa se stessa inglobando ciò che incontra sulla propria strada senza che la forma muti davvero. ”Alla fine degli anni Settanta sono andato a insegnare a Preganziol, sede distaccata di Architettura di Venezia. Lì si formavano gli urbanisti. Vivevo a Milano, andavo avanti e indietro”. Quando è finita quell’epoca? ”Quando è finito il Sessantotto e siamo entrati negli ”anni di piombo’. Stava arrivando l’esotismo. Una mattina Milli mi dice: ”Voglio dedicarmi allo yoga’. Le ho replicato: ”Ci sei cascata anche tu!’. Il giorno dopo penso: ”Ha ragione lei’. Erano iniziati gli anni Ottanta”. E la professione? ”Avevo fatto diverse cose: l’immagine coordinata del servizio trasporti della Provincia di Bolzano, sollecitato dagli urbanisti; poi la grafica del Verri nuova serie, la rivista di mio padre. E ancora libri e piccole case editrici”. Come conciliava questo con l’insegnamento? ”Insegnare mi permetteva di fare solo i lavori che m’interessavano, non dovevo dare da mangiare allo studio”. Negli anni Ottanta c’è un altro bivio: l’attività di saggista. Esce Monogrammi e figure (1981), il testo chiave di Anceschi, con cui fonda in Italia la progettazione degli artefatti comunicativi: un’opera di sintesi che trasforma la grafica in un’attività anche teorica; contiene saggi sul marchio, il manifesto, l’impaginazione della fotografia, una piccola storia della grafica dei giornali. C’è dentro tutta la sua esperienza di artista, la scuola di Ulm, la semiotica, la filosofia, la Gestalt, Max Bense,che Anceschi ha tradotto, ma anche la tradizione italiana. un saggio per immagini, secondo lo stile di Walter Benjamin. Il fatto di essere stato un crocicchio di tante storie e culture differenti fa sì che il posto di Giovanni Anceschi nella cultura italiana non sia ancora adeguato ai suoi meriti; inoltre, l’inquietudine, il rovello, la curiosità gli hanno impedito di definirsi in un solo modo. L’ultima frontiera, a cui molti hanno attinto senza pagar pegno, si chiama Interfacce, ovvero i pulsanti del cellulare, i bottoni dei distributori automatici, tutto il Web.’La maggior parte delle interfacce con cui abbiamo a che fare sono tonte. E invece dovrebbero danzare [...] Le discipline contengono un aspetto etico. Un grafico, un designer, oggi si misura con i grandi marchi, con le multinazionali, le veri eredi del nazismo: è il nazismo che ha inventato l’immagine coordinata creando un mondo di adepti. Ebbene l’etica serve per questo. Ma non basta. Ci vuole la politica”. E le interfacce? ”Servono a rendere migliore il mondo. Sono qualcosa di etico e di politico insieme. In fondo, in tutti questi anni ho lavorato sempre a una cosa sola: creare una disciplina complessiva che tenga insieme arte e politica, grafica e cultura. Si chiama teoria del progetto di comunicazione. Sono sempre rimasto un artista”» (Marco Belpoliti, ”La Stampa” 6/1/2006).
ANSELMO Giovanni Borgofranco d’Ivrea (Torino) 5 agosto 1934. Pittore. «[...] la famosa fotografia del 1971 trascina l’occhio in una prospettiva che è insieme dentro e fuori dallo spazio, dentro e fuori dal tempo. Riprende un Anselmo che, con passo veloce, mira a perdersi nel piano ma rimane fatalmente immobilizzato all’incrocio stesso delle diagonali. Un bivio riequilibrato dall’artista nel contrappeso visivo del masso di diorite a terra. Ed è quel segnale di invito, quel braccio destro, sollevato nella mossa primitiva del contadino alla semina, a raccordare i singoli componimenti in una grande orchestrazione corale. I pezzi si riscrivono nella Galleria in un magico accordo e, per contrappasso, le stanze aperte si intonano al tempo di una unità riconquistata. Ogni opera ha una propria misura e una propria logica interna. Ma ognuna è cadenzata a una battuta che la riporta a una più lontana dimensione paradigmatica, non visibile dell´universo. Dalle lastre di pietra tirate con una corda di metallo su tele bianche, allo specchio rivolto al muro e adagiato sullo strato di cotone, alla leva immobilizzata contro la parete nella torsione del tessuto che la tiene. Dal parallelepipedo in ferro con i segni dell´infinito, alla lastra con l’incisione della scritta ”un giro in più del ferro”, dalla barra in metallo foderata di grasso, posta accanto alle parole ”per un’incisione di migliaia di anni”, alla grande tela con i due pesanti blocchi di pietra che si controbilanciano al tiro di un filo metallico. E ancora altre opere degli anni Sessanta e Settanta. I proiettori a designare ciò che un corpo rischiara al suo passaggio, il masso che stringe due cavi ad alta tensione a lasciare aperta la minaccia di un pericolo imminente. E i titoli rendono esplicito il significato delle altre opere: L’aura della pittura, Respiro, Documentazione di interferenza umana nella gravitazione universale, Struttura che beve, Struttura che mangia, Mentre il colore solleva la pietra. Anselmo ribalta i valori, rovescia i ruoli, ripensa i tempi, riporta i materiali alla purezza originaria, prolunga l´azione nello spirito vitale delle sue opere. Così l’opera ha origine dal suo oggetto, dalla materia che si mostra senza inganno, si trasforma senza mai essere plasmata, si estende oltre il luogo fisico del suo darsi. Questo perché da sempre Anselmo si dichiara pittore. Dai primi tempi dell’Arte Povera, da quando, insieme agli altri artisti di quel ”gruppo”, prende a usare gli elementi della realtà come strumenti di un fare consueto, di una tecnica abituale: ”Io, il mondo, le cose, la vita, siamo delle situazioni di energia ed il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì mantenerle aperte e vive in funzione del nostro vivere”. Leggero pesante, visibile invisibile, liquido solido, particolare tutto, inerte dinamico, non sono concetti di un universo antinomico né parole votate alla semplice retorica. Sono istanti di una stessa energia latente. [...]» (Ester Coen, ”la Repubblica” 3/7/2006).
ARIENTI Stefano Asola (Mantova) 1961. Artista. «[...] parte da grandi poster murali, manipolati e trasformati: ”Un mio personale modo per utilizzare un immaginario a disposizione di tutti”. Inserito in un percorso avviato da Mimmo Rotella... ”Sicuramente Rotella è un artista che ho guardato nel tempo... Ma quello che mi ha influenzato è l’immaginario pop che ha utilizzato immagini esistenti e le ha trasformate in arte. un modo per far vedere che il diluvio di immagini che ci circonda e si insinua nella nostra vita può essere personalizzato, esorcizzato e non subito passivamente [...] Oggi si può lavorare sulle immagini in tanti modi diversi, attraverso la pittura, il disegno o le nuove tecnologie. Ci sono più mezzi a disposizione di un artista, una varietà straordinaria. un processo sempre in corso... [...] Vent’anni fa incontravo un pubblico molto raffinato ma amatoriale. Ora c’è stata un’esplosione. [...] Vengo da un mondo molto diverso: sono figlio di contadini. L’arte contemporanea è stato il completamento dei miei interessi [...] L’interesse per la natura o per il modo in cui si sviluppano naturalmente dei processi è molto vivo nel mio lavoro artistico. L’idea di usare delle metodologie, o una precisa manualità, sicuramente deriva da un mondo pratico e concreto come quello della campagna [...] Ho guardato molto al passato e non soltanto all´arte occidentale. Ho guardato alle altre culture per seguire miei interessi personali, a cominciare dalla musica, da quella classica al pop, alla musica popolare. E attraverso questi canali ho scoperto anche l’arte contemporanea. Per me ad esempio è stato molto importante scoprire e studiare l’arte antica giapponese. C’è una molteplicità di influenze nel mio lavoro”» (Paolo Vagheggi, ”la Repubblica” 1/11/2004). «[…] ”Raccolgo da anni i materiali che i giovani usano per i matrimoni. Mi sembrano una forma di rappresentazione spontanea, ricca di naïveté e anche di sentimento: esprimono un desiderio di felicità e danno spesso un’immagine scherzosa di un momento importante nella vita delle persone. Così ho pensato che a questi materiali si potesse dare dignità di ”opera d’arte’”. […] è uno dei pochi artisti italiani affermati sulla scena internazionale. ”Sono nato a Mantova e sono arrivato a Milano per studiare agraria. Ho iniziato a frequentare un gruppo di amici che disegnavano o dipingevano o facevano arte. Sono così entrato in contatto con persone eccezionali come Corrado Levi, da lui ho realizzato le prime mostre”. Milano era allora una città molto viva, dove gli artisti della generazione di Arienti avevano voltato pagina rispetto all’Arte Povera e alla Transavanguardia imperante, dove nascevano gallerie di tendenza e i collezionisti sostenevano il nuovo mood. ”Così il mio essere artista non è tanto il risultato di uno studio quanto l’esito di un percorso. E anche della convinzione che oggi non c’è bisogno di inventare nulla. Si tratta piuttosto di personalizzare con il proprio segno e far diventare arte cose che già esistono, aiutando la gente a guardarle con un occhio diverso”. Così ad esempio con i sacchetti della spesa si possono realizzare lunghe strisce che diventano Alghe, una delle prime installazioni di Arienti. Si possono spiegazzare le pagine dei giornali a fumetti o degli spartiti musicali o dei manuali di ragioneria e farli diventare Barchette o Turbine. ”Quando ”spiegazzavo’ i fumetti un giorno sono stato sorpreso nel trovarne alcuni già ”spiegazzati’ nella spazzatura: per un attimo ho pensato di averli gettati io per sbaglio, invece erano dei vicini che li avevano usati come festoni per un compleanno. Mi ha fatto piacere, ho capito che ero nella direzione giusta”. A volte si riutilizzano icone, come le fotografie o i poster di Marilyn su cui si interviene per sottrazione con una gomma da matita oppure si costruiscono sulle pagine di riviste ricami che nascono da delicati trafori. A volte l’installazione è il susseguirsi di copertine di libri su cui sono riprodotte quadri famosi. ”Mi sono divertito - racconta Arienti - ad accostarle a libri d’artista in cui sono intervenuto cancellando un’opera”. Il divertimento e il gioco sono un’altra costante della sua ricerca, che coinvolge anche capolavori del passato. […] Sulle Ninfee Arienti stende ditate colorate di Pongo, oppure le ricompone utilizzando poster uniti da cerniere lampo. A volte vediamo di un giardino di Monet solo la traccia ottenuta traforando il quadro. […] Le stoffe e gli elementi tessili sono altri elementi che affascinano Arienti: da una fotografia di animali-giocattolo ha realizzato una tappezzeria a pannelli bicolori, da stoffe di colore diverso ha ottenuto dei grandi teli rossi. E rossa è anche la grande moquette su cui bisogna camminare a piedi nudi per vedere Corda di carta di giornali, un’installazione realizzata con lunghe corde di giornali arrotolati […]» (Rocco Moliterni, ”La Stampa” 22/3/2005).
ASTORE Salvatore San Pancrazio Salentino (Brindisi) 20 aprile 1957. Artista. Tra le sue opere, un ciclo di Stanze disabitate: «[...] appena entri nella prima sala hai la sensazione che Astore [...] ti abbia condotto in un luogo dominato dal vuoto e dal silenzio. Tanto che ti viene quasi da camminare in punta di piedi per non disturbare quella quiete. riposante trovarsi circondati da questi grandi quadri, porte aperte su spazi dove addirittura sembra possibile entrare. Nello stesso tempo, dopo qualche istante, si percepisce una sorta di allarme, si resta in attesa. Succederà qualcosa? Qualcuno è appena andato via? C’è un’atmosfera metafisica, eppure si avverte la presenza di un’umanità che non c’è e che probabilmente siamo noi, invitati a varcare la soglia. ”Si tratta pur sempre di anatomie. - spiega l’artista, che rivela anche la sua suggestione - sono opere che nascono da una riflessione su Edward Hopper, sulla sua opera che inquadra un ambiente disabitato, tagliato dalla luce”. un Hopper rivisitato dalla stesura ampia, piatta ma impercettibilmente pulsante di Astore. E dal suo tipico segno, da una linea aggraziata di radice matissiana, che sceglie una porzione di mondo - un nudo, un bambino, un oggetto, anche un sanitario - e la incornicia, dandogli aria, facendone idoli solitari, piccoli eroi della quotidianità, che alternano fierezza e malinconia.
Se le grandi tele fanno riflettere sulla messa in scena dell’assenza, nei piccoli pastelli colpisce soprattutto la grande luminosità. E si capisce come il rapporto tra il pieno e il vuoto in questo caso sia soprattutto un equilibrio di luci e di ombre, di raffinate vibrazioni e impalpabili sfumature. Il racconto è lo stesso, aumenta soltanto l’intensità timbrica, il calore di una pittura che comunque mantiene un rigore ”minimalista”, anche perché ognuno di questi interni è costruito sul monocromo. [...] attratto dall’idea e dalla sfida del vuoto. I suoi bambini, gli animali, i nudi, gli oggetti ne sono circondati e ci fanno continuamente i conti. Senza mai sopraffarlo. Perché le opere di questo intonatore di silenzio, hanno bisogno di respiro, vivono di questo. E così succede quella piccola magia che le fa apparire monumentali nonostante la loro piccola dimensione, e leggere quando sono grandi» (Lea Mattarella, ”La Stampa” 3/12/2007).
ASTORI Antonia Melzo (Milano) 1940. Sorella di Enrico, con cui ha fondato Driade, «un pezzo di storia del design italiano» (L’espresso) • «[...] architetto purissimo di un minimalismo naturale e istintivo, persino nella sua leggibile firma: puntini sulle ”i” e lettere belle grandi. Antonia che negli anni Sessanta progetta il sistema Oikos, dove limpidi e lineari pannelli organizzavano con criteri leggeri e funzionali l’intera casa. Un’opera aperta che da una parte rispondeva al sogno molto sessantottino di una casa senza muri e obblighi e dall’altra all’utopia tipica delle avanguardie programmate e cinetiche, dove estetica coincideva con etica e lo spazio con il pensiero. Fu lei a portare in azienda un intellettuale a tutto tondo come Enzo Mari, artisti come Nanda Vigo e architetti-designer da Mendini a Castiglioni. [...]» (Alessandra Mammì, ”L’espresso” 10/8/2006).
ASTORI Adelaide (Acerbi) Milano 17 febbraio 1946. Sposata dal 1967 con l’architetto Enrico Astori, insieme al quale (e alla cognata Antonia) ha fondato nel 1968 Driade, azienda di oggetti e design della quale cura l’immagine grafica • «[...] Donna piena di energia, grande viaggiatrice, con forti capacità comunicative. A differenza dei due fratelli architetti, nasce scenografa, laureata con una tesi su Bruno Munari. Ma più che gettarsi in un ruolo direttamente creativo, preferisce puntare sulle doti di carattere. Si assume il compito di comunicare al mondo il ”Cosmo Driade” e indurre la sonnolenta borghesia italiana ad affrontare nelle proprie case l’incognita del mobile moderno. ”Dovevo immaginare un metodo di comunicazione diverso dal solito, affidato a formule inconsuete”. Così nel 1970 le viene in mente per prima cosa di far fotografare i mobili all’interno di case tradizionali e belle. Chiama all’uopo grandi fotografi, da Mulas a Basilico, e affida il tutto a riviste ”Driade” con distribuzione in edicola intorno alle 35 mila copie. Sulle ali della ninfa dei boschi l’operazione funziona. Driade nel giro di pochi anni diventa non solo sinonimo di mobile di qualità, ma veicolo di un progetto culturale più allargato e complesso. Nascono tre luoghi monomarca (Milano Tokyo, Roma) dove nell’allestimento, spesso ideato dalla stessa famiglia, si ospitano mostre, lezioni d’architettura, piccoli cenacoli dove capita d’incontrare una rassegna sul design giapponese o David Chipperfield che parla agli studenti. [...]»(Alessandra Mammì, ”L’espresso” 10/8/2006) • «Mio marito Enrico e io siamo lontani cugini, ma non ci frequentavamo da ragazzi: lui ha dieci anni più di me. Poi, nel ”67, mi ha chiesto di fargli il catalogo dei prefabbricati prodotti dalla sua azienda. per le foto ho chiamato Ugo Mulas, che aveva appena pubblicato New York, The New Art Scene, il suo libro sulla pop-art. Alla fine dell’anno Enrico e io ci siamo sposati [...] perché il nome Driade? Mah, era bello, eufonico... Confesso: non ricordo. Mi ricordo bene l’entusiasmo di noi tre, Enrico, Antonia e io, quando abbiamo deciso di buttarci. Era il ”68, però della contestazione me ne infischiavo. Avevo in mente solo la grafica, la pittura [...]» (’Specchio” 16/10/1999).
ASTORI Enrico Melzo (Milano) 25 settembre 1936. Architetto. Fondatore con con la sorella Antonia e la moglie Adelaide di Driade • «[...] Driade: ninfa dei boschi, incarnazione della forza e del rigoglio vegetativo, anima di secolari alberi sacri e cosmici che si lasciavano morire se abbandonati da queste creature che i greci rappresentavano leggere come un arabesco. [...] da chi lo conosce viene descritto come un uomo pieno di entusiasmo. Una natura curiosa, percettiva, prensile, attratta da tutto quello che è nuovo e diverso. Un capofamiglia che allarga il nucleo ad architetti, artisti e designer fino a trasformarlo in tribù, e si dimostra insofferente a schemi rigidi e a modelli consolidati. Sperimentatore instancabile negli anni Ottanta, lancia un allora poco conosciuto creativo dal nome Philippe Starck e convince solidi progettisti come Toyo Ito a cimentarsi nella produzione di mobili. Infine apre la porta di casa e dell’azienda a un allora bizzarro scultore israeliano di nome Ron Arad, che gli porta improbabili prototipi fatti a mano in cui solo l’occhio di un talent scout riesce a vedere il futuro geniale designer. [...]» (Alessandra Mammì, ”L’espresso” 10/8/2006).
AULENTI Gae Palazzolo della Stella (Udine) 4 dicembre 1927. Architetto. Laurea ad honorem in Belle Arti alla Rhode Island School of Design di Providence, cavalierato di Gran Croce della Repubblica italiana, Legion d’onore conferitale da François Mitterrand, tra le opere più recenti il museo di arte asiatica di San Francisco (spettacolari le soluzioni antisismiche: la struttura portante poggia su enormi ”rocchetti” di rame e gomma tanto che il palazzo può resistere a un terremoto di grado 8,3 oscillando su se stesso di un metro e mezzo senza danni, risultato fondamentale se si pensa alle ceramiche e porcellane esposte, vedi Federico Rampini su ”L’Espresso” del 13/8/2002). «Interior decoratrice. Veneta di nascita, ma calabrese di razza, la signora dell’architettura italiana s’è laureata tardi, a 32 anni, quando già lavorava da un pezzo alla rivista ”Casabella”, tempio dell’italian style. L’anno dopo, nel 1960, diventa l’assistente di Giuseppe Samonà e inizia una carriera eclettica e versatile a raggio cosmopolitico. Designer di grido della Fiat e dell’Olivetti (sua la lampada pipistrello), diventa scenografa di Luca Ronconi al laboratorio di Prato, costumista per il Wozzeck di Alban Berg alla Scala, musa di Karlheinz Stockhausen, inventandosi scene e costumi per la prima del Donnerstag aus licht e alla fine viene promossa ”interior decorator” di casa Agnelli. Forte di tanta universale reputazione, nel 1980 vince a Parigi il concorso per trasformare il Gare d’Orsay in un museo e si sbizzarisce nell’ornato color miele dei padiglioni in forma di tombe egizie e negli intrecci di rame e peperino, subito assurti a sigla di certificazione del gusto per il vippaio brianzolo, mentre la signora conquista il restauro di Palazzo Grassi a Venezia. Dopo la batosta subita per la ricostruzione della Fenice (l’appalto assegnato all’Impregilo è stato poi vinto da Aldo Rossi) e il sabotaggio di cui fu oggetto come presidente dell’Accademia di Brera, la signora ha ritrovato la fiducia nelle istituzioni, accettando dal comune di Milano, governato dalla destra, l’incarico per ridisegnare piazza Cadorna e l’accesso alla Stazione Nord per il Malpensa express. Parla pochissimo, fuma in continuazione e veste solo tailleur pantaloni in foggia maoista. Aveva arredato la casa di Craxi, ma anche la prima terrazza di Eugenio Scalfari» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 3/10/1998). «[...] severa, e rigorosa, maschile nei tratti [...] i capelli tagliati come quelli dell’Auriga di Delfi [...] La ”magicienne des formes”, come la chiamano in Francia, miscelatrice di simmetrie e asimmetrie [...]. La ”pendolare del bello”, secondo un’altra etichetta, l’architetto della ragione, è una donna insieme aspra e cordiale, di semplicità francescana se non claustrale. Se le chiedi qual è il suo odore preferito, quello più inebriante, non ha esitazioni: l’odore del cemento. Per lei è un profumo. [...] Il suo punto d’arrivo, quello di tutta una vita, dice, è la semplicità: ”Credo sia uno dei traguardi più difficili, perché il problema è complesso. Ma attenzione all’equivoco: non si tratta di semplificazione, di rendere le cose limitate. Bensì l’esatto contrario: la semplicità è carica di tutti i contenuti. E anche dei sentimenti”. [...] Dal particolare al generale, dal cucchiaio alla città era il motto del suo maestro Ernesto Nathan Rogers. Se la sua città è il Museo d’Orsay o il Museo d’arte asiatica di San Francisco che racchiude sei millenni di storia, qual è il suo cucchiaio? ”Guardi, non mi interessa tanto la formula quanto l’attitudine rispetto a un lavoro. Proprio mentre facevo Orsay la Louis Vouitton mi chiese di disegnare questo orologio che ho al polso”. una grande ”cipolla” ma di forma appiattita con quadranti concentrici, ormai fuori commercio: ”Volevano un tipo di orologio che esprimesse internazionalità, viaggi, lune, e tutta la definizione legata ai tempi e ai luoghi. Ecco: l’intensità che si mette in un lavoro è la stessa, lo stesso impegno. Che si tratti di progettare un orologio o un museo”. Boston, Parigi, Caracas, Barcellona, Istanbul, Berlino, Siviglia... Perché è così difficile lavorare in Italia? ”Per un motivo molto semplice. L’architettura delle opere pubbliche non è l’architetto che la determina, ma sono gli amministratori. O comunque: un’integrazione fra buoni amministratori e buoni architetti. In Italia ci sono bravissimi architetti ma non ci sono buoni amministratori. In Italia si possono anche vincere dei concorsi, ma poi l’opera spesso non si realizza”. Da sempre preferisce le opere pubbliche a quelle private: i musei, le biblioteche, i palasport [...] Se i suoi musei sono sui libri di architettura, un grande riserbo circonda invece le case miliardarie che ha disegnato o ristrutturato, l’ultima - in ordine di tempo - a Marrakech: ”Il segreto è appropriarsi dei luoghi, delle definizioni, del modo di vivere e di tutto quello che è rappresentato dal cliente”. Chi per esempio? ”Fa parte dell’etica professionale non rivelare i nomi”. Le pupille si fanno più strette. [...] ”Certo, sono severa, è la mia natura. Una forma di autodisciplina, altrimenti mi disgrego. La severità è una chiave indispensabile per affrontare problemi immensi, un’attitudine necessaria. Questo non vuol dire che non ci divertiamo, tutt’altro [...] La severità insieme alla pazienza è una delle virtù cardinali che permettono una buona lettura della realtà e quindi una buona sintesi [...] Non esiste la lampadina che si accende, il lampo di genio, l’idea improvvisa, l’intuizione. Si tratta piuttosto di qualcosa che matura giorno dopo giorno. Un processo lento, sempre accompagnato da quell’ansia di cui dicevamo. L’ansia deriva dalla ricerca, che può essere intima, quando è del singolo architetto, oppure di gruppo, della squadra [...] il progetto appena realizzato appartiene già al passato. Io penso sempre: fuori uno. Anzi, ha presente Fiorello quando dice: fatto! Così: fatto! Uno di meno”. Quanto alle critiche, ”sono ingiuste solo quando non sono serie e non sono profonde. Io ho imparato molto presto che quando su un’opera si riscuote il 50 per cento di pareri favorevoli e il 50 contrari è un successo. Vuol dire che c’è discussione. Un plebiscito mi metterebbe in agitazione, piacere a tutti non va bene”. Flaubert disse: ”Gli architetti! Fanno le case e si dimenticano le scale”. Chissà se Gae Aulenti concorda. ”In certi casi sì. L’architettura è un’arte molto complessa. Un quadro è chiuso in un museo: sta a me scegliere se voglio andarlo a vedere. Un’opera d’architettura invece la devo frequentare, usare, visitare, percorrere: per questo motivo la critica può essere molto più forte e molto più pertinente”. [...] Ha sempre detto di essersi iscritta alla facoltà di architettura perché voleva ”intervenire sulla realtà”. [...] ”[...] Credo molto nell´integrazione delle arti, la letteratura, la musica, la pittura. Saper vedere, saper riconoscere, saper scambiare. La cosa più importante è sempre lo scambio fra le varie discipline [...] Quello che manca nelle città italiane è il senso di collettività. Una città che si rappresenta bene è una città più funzionale. Il cittadino si sente parte di un insieme, con rispetto e con orgoglio. In Italia questa cosa non c’è. In Francia c’è. A Barcellona c’è. A San Francisco c’è” [...]» (Laura Laurenzi, ”la Repubblica” 17/4/2005). «Leggo molto perché è un alimento del quale non riesco a fare a meno da quando ero piccola e questo riempie i miei momenti liberi […] Sì, mi considero un intellettuale, non si può fare architettura senza conoscere la musica, la filosofia, l’arte, la letteratura […] Mi sono sempre interessata all’arte soprattutto contemporanea. Dopo il Museo d’Orsay a Parigi mi sono procurata la cosiddetta specializzazione che ha fatto esplodere altri incarichi come il Musée d’Art Moderne al Centre Pompidou di Parigi e poi il Palazzo Grassi a Venezia e il Museo d’Arte Catalana a Barcellona, poi a Istanbul il museo d’Arte Contemporanea […] molto difficile lavorare perché anche se si vincono concorsi non è detto che il lavoro si faccia, o si fa con tempi di decisione lunghissimi […] Della moda mi incuriosisce molto quello che fanno i designer, che conosco bene come Armani o Miuccia Prada. Mi interessa vedere qual è il filone di ricerca. Mi interessa pochissimo come apparenza […] Ho Milano come città di riferimento che mi piace perché è una città dove non ci si ferma. Si viene per partire, e si parte per ritornare. Mi piacciono molto Parigi e New York. Ha Parigi faccio passeggiate lunghissime. l’unica città dov’è naturale camminare» (Alain Elkann, ”La Stampa” 5/7/1998). «In una certa Milano laureata in birignao tutti la chiamano ”la Gae”, specie quelli che non la conoscono […] Signora di gusto e di classe, è tra le tre o quattro architette al mondo assurte al pantheon professionale. […] Domanda: perché così spesso divide gli animi? Eccede forse in narcisismo? il suo linguaggio, di schietta impronta razionalista, che oggi appare datato? Il suo approccio ”pesante” al restauro architettonico è meno à la page? Si tratta di un architetto completo o di una specialista in musei? Insomma: fatta salva l’apprezzata designer degli anni Sessanta-Settanta, è sopravvalutata? ”Sopravvalutata? No”. la netta risposta di François Burkhardt, uno dei maggiori critici europei, direttore di ”Domus” e già tra i curatori del Centre Pompidou: ”La sua scuola è ottima, il razionalismo di Ernesto Rogers, di ”Casabella’, con i giovani Gregotti e Rossi. La sua cultura è solida, è curiosa d’arte, teatro, letteratura. Forse il suo linguaggio appare oggi un po’ schematico e asciutto. Ha preso il razionalismo come punto d’arrivo anziché come punto di partenza. Ma Orsay è un’opera importante, un tema difficile risolto brillantemente. Anche se all’asciuttezza del linguaggio ha aggiunto un po’ di poesia il suo collaboratore di allora, Italo Rota”. A Parigi, nell’86, l’inaugurazione del nuovo museo dell’800 scatenò vivaci polemiche, la accusarono di aver creato ”una necropoli faraonica”, con quei gran volumi pietrosi che si accavallano, distraendo l’attenzione dalle opere esposte […] Ha fatto grandi lavori, va detto, perché ha vinto concorsi di progettazione. Ma certo non le nuoce la sua capacità di gestire conoscenze di elevato peso specifico. […] A Milano il mito della Gae è solido. Da anni vive e lavora in un ”carinissimo” anzi ”charmosissimo” hotel particulier dietro al bar Giamaica. Il suo nome è legato a stagioni felici della città. Dopo il matrimonio con un architetto fu legata a lungo a Carlo Ripa di Meana, ed era la Milano riformista del club Turati, delle Triennali, della Casa della Cultura. Nei Settanta operò con successo come scenografa per la Scala e altri teatri, con Luca Ronconi, Abbado, Pollini. A mezzanotte capitava da ”Oreste”, in piazza Mirabello, come Eco, come Sottsass, come altri. I suoi clienti privati non sono mai stati banali. Ha sistemato la casa di Leopoldo Pirelli a Portofino ma anche quella in città di Bettino Craxi, allora leader in ascesa: un lavoro che oggi disconosce e non figura nel suo curriculum ufficiale. Dopo Mani pulite si è schierata più volte con i candidati (sconfitti) della sinistra […] Veste minimal, ha carattere duro, gesti maschili, tacchi bassi. ”Se vuole” così un amico ”sfonda i muri a testate”. […] Dagli anni Settanta ha più di una volta offerto il proprio know-how alla famiglia Agnelli. Dopo l’intervento dell’inglese Russell Page, realizzo lei tutta la zona piscina nel parco di Villa Agnelli a Villar Perosa. Si è occupata, sempre per l’Avvocato, degli interni della grande casa di Suvretta, a Sankt Moritz. […] ”Più che per la qualità dei suoi contatti personali”, dice Vittorio Magnago Lampugnani, storico dell’architettura del Novecento, cattedra a Zurigo, ”ha avuto un vantaggio dall’essere donna in un ambito professionale maschilista. emersa come donna-alibi, tra gli architetti della sua generazione, e ha usato la sua chance oculatamente”» (Enrico Arosio, ”L’Espresso” 16/9/1999).
AYMONINO Carlo Roma 18 luglio 1926. Architetto. Tra le sue opere: Quartiere spine bianche a Matera (62), sistemazione della piazza XX settembre a Fano (72-74), tribunale di Ferrara (77), piano per il centro di Firenze (78). «Architetto, padre storico dell’urbanistica capitolina e assessore al Centro storico dall’80 all’84, giunta rossa Petroselli» (’L’espresso” 16/1/1997).