Parrini, 13 gennaio 2008
ARTISTI PER LAURETTA
ABATE CLAUDIO Roma 1943. Fotografo • Figlio di un pittore amico di Giorgio De Chirico, cresciuto a via Margutta, a 12 anni aveva già in mano la sua prima macchina fotografica, a 16 lavorava per il Press Service Agency, a 18 era assistente di Eric Lessing, nome di punta della Magnum, oggi «è uno dei fotografi più ricercati dagli artisti europei, ha nel suo studio decine di migliaia di immagini, rarissime, che testimoniano i passaggi chiave di quell’effervescente momento che va dal 1968 al 1978» (Alessandra Mammì) • «Giulio Paolini lo incorona: ”Se fossi fotografo non mi tratterrei da rifotografare le tue fotografie”. All’infinito: felice ouroboros». (Marco Vallora).
ACCARDI CARLA Trapani 9 ottobre 1924. Pittrice • «Il dato fondamentale e costante della pittura di Accardi è la conformazione bidimensionale dello spazio, lo sbarramento di ogni profondità prospettica e nello stesso tempo una mancanza di spessore materico, che invece accompagna lo sviluppo, simultaneo all’astrattismo, dell’informale» (Achille Bonito Oliva).
ADAMI VALERIO Bologna 17 marzo 1935. Pittore. Le sue opere sono caratterizzate da campi uniformi in acrilico separati da forti contornature nere (tipo cartoons) • «Wagner scriveva il libretto e solo in seguito componeva la musica. Così io creo il disegno e poi lo riempio di colore. Il disegno sta alla parola come il colore al suono. Se il disegno delinea un pensiero, il colore, come la musica, offre temperature emotive».
ALBANESE GIOVANNI Bari 22 giugno 1955. Artista. «Autore di opere surreali e fantasiose costruite assemblando ”tutto quello che gli altri buttano”: il pianoforte a coda incendiato da centinaia di lampadine rosse, il Pippo volante» (Federica Lamberti Zanardi).
ALVIANI Getulio Udine 5 settembre 1939. Artista • «Uno dei maggiori protagonisti della ricerca artistica degli anni Sessanta indicata come Arte Programmata e Cinetica. Nel corso degli anni si è interessato non solo all’arte visiva ma anche alla grafica, alla teoria, all’architettura e al design, confrontandosi con il ruolo di curatore, collezionista e, tra il 1981 e il 1985, con quello di direttore del Museo d’arte moderna di Ciudad Bolivar, in Venezuela» (Tiziana Casapietra).
ALMAGNO ROBERTO Aquino (Frosinone) 1954. Scultore • «Ha letto e guardato, a lungo, i percorsi maggiori della scultura contemporanea: ma li ha poi potuti come dimenticare, grazie a due insegnamenti a lui più prossimi, quelli di Pericle Fazzini e di Arturo Martini. Di Fazzini è stato allievo; e scende, all’inizio, proprio da lui quel bisogno, poi sempre rimasto vivo, di una dismisura, di uno slancio, di un vento che scuote gli assetti, e sradica la scultura dal vincolo alla terra, per proiettarla in un altrove. Di Martini, non un’opera sola (se non forse la Donna che nuota sott’acqua, e le sue folgoranti intuizioni: il suo sgusciare via dal volume e dallo spazio che rinserra la forma, il suo infinito spargersi attorno), ma gli ultimi ”comandamenti”: ”Fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione”» (Fabrizio D’Amico).
AMARI Claudia Millesimo (Savona) 24 marzo 1955. Scultrice. «Prima e unica scalpellina della Veneranda fabbrica del Duomo, il cantiere perpetuo che dal 1386 si occupa del restauro e della conservazione della basilica meneghina, è conosciuta soprattutto per i suoi studi sulla cinetica marmorea, una tecnica ispirata alla moviola» (Silvia Bombelli).
AMATO VINCENZO Palermo 30 marzo 1966. Artista. ”Attore feticcio” di Emanuele Crialese («quella parola, feticcio, proprio non mi piace»), prima con Once We Were Strangers, poi con Respiro e Nuovomondo, conobbe il regista in America: «Io sono arrivato negli Usa come scultore, lavoro il ferro, lui come regista apprendista che non aveva trovato posto allo Sperimentale di Roma» • Da ultimo Albert Einstein diretto da Liliana Cavani (doppia versione per cinema e tv).
ANCESCHI GIOVANNI Milano 12 settembre 1939. Artista • « un incrocio, un trivio o più probabilmente un quadrivio: arte programmata, scuola di Ulm, grafica di pubblica utilità, insegnamento universitario, dal Dams di Bologna allo Iuav di Venezia. La sua persona ha attraversato, ed è stata attraversata, da mezzo secolo di cultura italiana, quella che ha praticato l’innovazione dei linguaggi e delle forme espressive nel modo più utile e sintetico: mediante il fare» (Marco Belpoliti) • Figlio del critico letterario Luciano Anceschi, studiò filosofia a Milano e fu allievo dello psicologo e psicanalista Cesare Musatti: «Tuttavia nel 1957-58 ho detto a mio padre: ”Non mi laureo, voglio fare il pittore”. Mi ha risposto: ”Devi imparare a disegnare”. E così mi ha portato da Achille Funi che insegnava a Brera».
ANSELMO GIOVANNI Borgofranco d’Ivrea (Torino) 5 agosto 1934. Artista. Tra le sue opere, un parallelepipedo in ferro con i segni dell’infinito, la lastra con l’incisione della scritta «un giro in più del ferro», la barra in metallo foderata di grasso, posta accanto alle parole «per un’incisione di migliaia di anni», la grande tela con i due pesanti blocchi di pietra che si controbilanciano al tiro di un filo metallico ecc.
ARIENTI STEFANO Asola (Mantova) 1961. Artista. «Uno dei pochi artisti italiani affermati sulla scena internazionale» (Rocco Moliterni) • Parte da grandi poster murali, manipolati e trasformati: « un modo per far vedere che il diluvio di immagini che ci circonda e si insinua nella nostra vita può essere personalizzato, esorcizzato e non subito passivamente».
ASTORE SALVATORE San Pancrazio Salentino (Brindisi) 20 aprile 1957. Artista. Tra le sue opere, un ciclo di Stanze disabitate: «Dopo qualche istante, si percepisce una sorta di allarme, si resta in attesa. Succederà qualcosa? Qualcuno è appena andato via? C’è un’atmosfera metafisica, eppure si avverte la presenza di un’umanità che non c’è e che probabilmente siamo noi, invitati a varcare la soglia. ”Si tratta pur sempre di anatomie. - spiega l’artista, che rivela anche la sua suggestione - sono opere che nascono da una riflessione su Edward Hopper, sulla sua opera che inquadra un ambiente disabitato, tagliato dalla luce”» (Lea Mattarella).
ASTORI ANTONIA Melzo (Milano) 1940. Architetto. Sorella di Enrico, con cui fondò nel 1968 Driade, «un pezzo di storia del design italiano» (L’espresso) • «Architetto purissimo di un minimalismo naturale e istintivo, persino nella sua leggibile firma: puntini sulle ”i” e lettere belle grandi. Antonia che negli anni Sessanta progetta il sistema Oikos, dove limpidi e lineari pannelli organizzavano con criteri leggeri e funzionali l’intera casa. Un’opera aperta che da una parte rispondeva al sogno molto sessantottino di una casa senza muri e obblighi e dall’altra all’utopia tipica delle avanguardie programmate e cinetiche, dove estetica coincideva con etica e lo spazio con il pensiero. Fu lei a portare in azienda un intellettuale a tutto tondo come Enzo Mari, artisti come Nanda Vigo e architetti-designer da Alessandro Mendini ad Achille Castiglioni» (Alessandra Mammì).
ASTORI ADELAIDE (Acerbi) Milano 17 febbraio 1946. Sposata dal 1967 con l’architetto Enrico Astori, insieme al quale (e alla cognata Antonia) fondò nel 1968 Driade, azienda di oggetti e design della quale cura l’immagine grafica • «Enrico e io siamo lontani cugini, ma non ci frequentavamo da ragazzi: lui ha dieci anni più di me. Poi, nel ”67, mi ha chiesto di fargli il catalogo dei prefabbricati prodotti dalla sua azienda. Per le foto ho chiamato Ugo Mulas, che aveva appena pubblicato New York, The New Art Scene, il suo libro sulla pop-art. Alla fine dell’anno Enrico e io ci siamo sposati».
ASTORI ENRICO Melzo (Milano) 25 settembre 1936. Architetto. Fondatore con la sorella Antonia e la moglie Adelaide di Driade (ninfa dei boschi, anima di secolari alberi sacri e cosmici che si lasciavano morire se abbandonati), «un pezzo di storia del design italiano» (L’espresso) • «Una natura curiosa, percettiva, prensile, attratta da tutto quello che è nuovo e diverso. Un capofamiglia che allarga il nucleo ad architetti, artisti e designer fino a trasformarlo in tribù, e si dimostra insofferente a schemi rigidi e a modelli consolidati. Sperimentatore instancabile negli anni Ottanta, lancia un allora poco conosciuto creativo dal nome Philippe Starck e convince solidi progettisti come Toyo Ito a cimentarsi nella produzione di mobili. Infine apre la porta di casa e dell’azienda a un allora bizzarro scultore israeliano di nome Ron Arad, che gli porta improbabili prototipi fatti a mano in cui solo l’occhio di un talent scout riesce a vedere il futuro geniale designer» (Alessandra Mammì) • Lavora in azienda anche la figlia Elisa (Milano 9 marzo 1971), pure lei architetto.
AULENTI GAE (Gaetana) Palazzolo dello Stella (Udine) 4 dicembre 1927. Architetto. «Piacere a tutti non va bene».
VITA Gaetana è il «nome che fu imposto da una nonna terribile, ma in casa sono sempre stata Gae». Tipica famiglia borghese del Sud, «un po’ calabrese e un po’ pugliese, fatta di professionisti, intellettuali, piccoli proprietari», dopo Palazzolo dello Stella vissero a Biella. Collegio a Torino e Firenze, «appena ho potuto ho scelto Milano e il Politecnico». Vittorio Gregotti, suo coetaneo, la fece arrivare alla ”Casabella-Continuità” di Ernesto Nathan Rogers come redattore. In seguito assistente presso la cattedra di Composizione architettonica di Giuseppe Samonà, con il suo tratto inconfondibile ha segnato allestimenti di mostre, musei e scenografie teatrali. «l’architetto che ha ristrutturato le Scuderie del Quirinale e Palazzo Grassi, che ha ridisegnato Piazza Cadorna a Milano, che ha inventato oggetti cult come la lampada Pipistrello e il dondolo Sgarsul» (Stefano Bucci) • «S’è laureata tardi, a 32 anni, quando già lavorava da un pezzo alla rivista Casabella, tempio dell’italian style. L’anno dopo, nel 1960, diventa l’assistente di Giuseppe Samonà e inizia una carriera eclettica e versatile a raggio cosmopolitico. Designer di grido della Fiat e dell’Olivetti (sua la lampada pipistrello), diventa scenografa di Luca Ronconi al laboratorio di Prato, costumista per il Wozzeck di Alban Berg alla Scala, musa di Karlheinz Stockhausen, inventandosi scene e costumi per la prima del Donnerstag aus licht e alla fine viene promossa ”interior decorator” di casa Agnelli. Forte di tanta universale reputazione, nel 1980 vince a Parigi il concorso per trasformare il Gare d’Orsay in un museo e si sbizzarisce nell’ornato color miele dei padiglioni in forma di tombe egizie e negli intrecci di rame e peperino, subito assurti a sigla di certificazione del gusto per il vippaio brianzolo, mentre la signora conquista il restauro di Palazzo Grassi a Venezia» (Pietrangelo Buttafuoco) • «Severa, e rigorosa, maschile nei tratti, i capelli tagliati come quelli dell’Auriga di Delfi. La ”magicienne des formes”, come la chiamano in Francia, miscelatrice di simmetrie e asimmetrie. La ”pendolare del bello”, secondo un’altra etichetta, l’architetto della ragione, è una donna insieme aspra e cordiale, di semplicità francescana se non claustrale. Se le chiedi qual è il suo odore preferito, quello più inebriante, non ha esitazioni: l’odore del cemento. Per lei è un profumo. Il suo punto d’arrivo, quello di tutta una vita, dice, è la semplicità: ”Credo sia uno dei traguardi più difficili, perché il problema è complesso. Ma attenzione all’equivoco: non si tratta di semplificazione, di rendere le cose limitate. Bensì l’esatto contrario: la semplicità è carica di tutti i contenuti. E anche dei sentimenti”. Dal particolare al generale, dal cucchiaio alla città era il motto del suo maestro Ernesto Nathan Rogers» (Laura Laurenzi) • Al Musée D’Orsay lavorò dall’80 all’87: «A Parigi ha realizzato opere importanti, ottenendo riconoscimenti di prestigio, tra cui la Legion d’Onore. Il suo nome però resta soprattutto legato alla trasformazione della Gare d’Orsay, che a metà degli anni Ottanta divenne il museo del secondo Ottocento e degli impressionisti, un’opera che, seppure coronata da un grande successo di pubblico (nei primi due anni vi affluirono otto milioni di visitatori), in realtà suscitò furiose polemiche tra gli addetti ai lavori. Il concorso infatti era stato vinto dagli architetti Bardon, Colboc e Philippon, ai quali in un secondo momento fu imposto di collaborare con l’architetto milanese, che a Parigi godeva già di solida fama e di importanti amicizie. Con indiscutibile dinamismo, Gae Aulenti s’impadronì di fatto del lavoro, imprimendo il suo marchio su ogni dettaglio. Ridisegnò tutto lo spazio sotto la grande volta di vetro, inventò l’arredamento, i mobili, le vetrine, i piedistalli, le panchine, le sedie e le casse dell’ingresso, al punto che ci fu chi l’accusò di essersi soprattutto preoccupata di valorizzare il suo lavoro più che le opere esposte. Perfino il presidente della Repubblica François Mitterrand, che a quanto si dice caldeggiò apertamente la sua partecipazione, se ne rese conto: ”Mi sembra che la decorazione abbia preso il sopravvento sul contenuto”, commentò visitando il museo qualche tempo prima dell’inaugurazione. Ancora oggi, quando si parla del Musée d’Orsay, si evoca solo il nome della Aulenti e non quello dei tre colleghi. Fatto che provoca qualche risentimento nel mondo dell’architettura d’oltralpe. Oltretutto diversi critici le rimproverarono, oltre l’eccessivo protagonismo, un certo manierismo monumentale, nonché un eclettismo postmoderno troppo disinvolto. Specie al piano terra del museo, dove, come scrisse il critico d’arte dell’Express Pierre Schneider, l’architetto avrebbe ”travestito dei bunker da mausolei faraonici. Risultato: una basilica di Costantino al cui interno si scopre la Valle dei Re reinterpretata da Tintin”. Altri invece denunciarono i pilastri grigi posti in alcune sale con il risultato di trasformare ”il percorso in una sorta di passerella per secondini di prigione”. Insomma l’operazione destinata a rivoluzionare la museografia francese non convinse tutti» (Fabio Gambaro) • In Italia, ha restaurato Palazzo Grassi, sul canal Grande: «L’incarico, assolto con perizia, sfruttando la luce zenitale e usando i colori pastello e il marmorino in voga in quegli anni, ha riscosso il successo del pubblico, ma tra gli specialisti suscita analisi anche severe» (Enrico Arosio) • Dopo il matrimonio con un architetto, fu legata a lungo a Carlo Ripa di Meana. Ha una figlia.
FRASI «Non esiste la lampadina che si accende, il lampo di genio, l’idea improvvisa, l’intuizione. Si tratta piuttosto di qualcosa che matura giorno dopo giorno» • «Mi riconoscono per strada a Milano e a New York. Ma io non ci casco. Resisto alle interviste, non ho voglia di andare da nessuna parte. E, soprattutto, odio i dibattiti di tuttologia. Ognuno deve saper fare il suo mestiere» • «Mi considero un’intellettuale, non si può fare architettura senza conoscere la musica, la filosofia, l’arte, la letteratura» • «Un quadro è chiuso in un museo: sta a me scegliere se voglio andarlo a vedere. Un’architettura invece la devo frequentare, usare, visitare, percorrere: per questo motivo la critica può essere molto più forte e molto più pertinente».
CRITICA «Ha avuto un vantaggio dall’essere donna in un ambito professionale maschilista. emersa come donna-alibi, tra gli architetti della sua generazione, e ha usato la sua chance oculatamente» (Vittorio Magnago Lampugnani) • « stata una buona designer. Ma del Musée d’Orsay ho sempre pensato che se c’erano gli elefanti era perfetto per l’Aida» (Massimiliano Fuksas).
POLITICA Dopo Mani pulite si è schierata più volte con i candidati sindaci di Milano (sconfitti) della sinistra (Nando Dalla Chiesa ecc.). Fu a suo tempo (con Umberto Eco, Enzo Biagi, Guido Rossi, Umberto Veronesi) tra i garanti di Libertà e Giustizia.
AYMONINO CARLO Roma 18 luglio 1926. Architetto. Tra le sue opere: quartiere spine bianche a Matera (1962), sistemazione della piazza XX settembre a Fano (1972-1974), tribunale di Ferrara (1977), piano per il centro di Firenze (1978) • «Padre dell’urbanistica capitolina, assessore al Centro storico (1980-84), giunta rossa di Luigi Petroselli» (L’Espresso) • La figlia Silvia, avuta da Ludovica Ripa di Meana (Roma 11 febbraio 1933), costumista, ha sposato Silvio Sircana, portavoce del secondo governo Prodi, il figlio Aldo (Roma 15 giugno 1953) è anch’egli architetto.