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 2008  gennaio 13 Domenica calendario

Dopo aver bevuto la cicuta – racconta Platone – Socrate rimproverò i suoi allievi, che non riuscivano a frenare il pianto: «Che stranezza è mai questa, amici? Si dice che sia bene morire fra serene parole di augurio»

Dopo aver bevuto la cicuta – racconta Platone – Socrate rimproverò i suoi allievi, che non riuscivano a frenare il pianto: «Che stranezza è mai questa, amici? Si dice che sia bene morire fra serene parole di augurio». E serenamente spirò. Così nel «Fedone». Ma che la cicuta ( koneion) desse una morte indolore è tutt’altro che certo. Platone, probabilmente, voleva idealizzare gli ultimi momenti del maestro ma altri resoconti, più realistici, descrivono la morte di chi aveva ingerito il veleno in modo molto diverso: la mente oscurata, la vista deformata, gli occhi che selvaggiamente roteavano, la gola attanagliata, le estremità paralizzate. La cicuta, infatti, non venne introdotta per alleviare le sofferenze dei condannati a morte. Venne introdotta per calcolo politico dai Trenta Tiranni (V secolo a.C.), che per liberarsi senza troppo rumore degli oppositori mandavano loro in carcere una porzione del veleno: per ovvie ragioni, queste esecuzioni dovevano avvenire senza suscitare scalpore. La cicuta, insomma, doveva risolvere un problema politico: esattamente come negli Usa, a distanza di duemilacinquecento anni, l’iniezione letale, introdotta in un momento molto delicato per i sostenitori della pena capitale. Nel 1972, nel corso di una lunga moratoria, la Corte Suprema ( Furman vs. Georgia) aveva dichiarato l’incostituzionalità di questa pena, perché nei modi e nelle le forme in cui era applicata era contraria all’Ottavo Emendamento, che proibisce pene «crudeli e inusuali». Ma nel 1976 ( Gregg vs. Georgia) la Corte, i cui componenti erano cambiati, mutò opinione. Senonché nel frattempo era cambiato anche l’atteggiamento dell’opinione pubblica e un forte malessere serpeggiava anche fra i sostenitori della pena. Per evitare che la reintroduzione provocasse traumi eccessivi, era necessario trovare altre forme di esecuzione. La fucilazione e l’impiccagione apparivano crudeli e disumane; la camera a gas e la sedia elettrica provocavano lunghe agonie: inoltre, la camera a gas era stata usata dai nazisti. Una morte «medicalizzata», con aghi e siringhe, era una concessione a sentimenti di umana solidarietà che avrebbe contribuito a dare della pena un’immagine più accettabile. E così è stato, fino a quando la verità è andata facendosi strada. Nel 2005, un articolo sulla rivista medica The Lancet spiegava che le iniezioni che inducono prima la paralisi e quindi l’arresto cardiaco devono essere precedute dalla somministrazione di un anestetico, senza il quale il condannato, in preda a fortissimi spasmi muscolari, si sente soffocare e ha, letteralmente, la sensazione di venire bruciato vivo. Ma nelle camere della morte l’anestesia viene praticata senza test clinici, da personale non addestrato, senza controllo medico sui metodi: le iniezioni letali attualmente in uso per gli esseri umani – era la conclusione della ricerca – vengono praticate secondo standard che non raggiungono neppure quelli richiesti per l’esecuzione degli animali. E purtroppo la conferma della denunzia dei medici venne da esecuzioni successive. Un solo esempio tra i tanti: il 13 dicembre 2006, a Jacksonville, in Florida, il portoricano Angel Nives Diaz ha agonizzato sul lettino per 34 minuti. Così stando le cose, per evitare l’obiezione che l’esecuzione fosse contraria all’Ottavo Emendamento, ai medici venne fatta una richiesta: quella che un anestesista supervedesse all’esecuzione. Il rifiuto fu netto. Nel Code of Medical Ethic, del 1992, si legge: «Un medico, in quanto esponente di una professione il cui scopo è salvare la vita, quando vi sono speranze di farlo, non dovrebbe partecipare a un’esecuzione» anche se l’opinione personale del medico sulla pena capitale rimane una scelta morale individuale. L’iniezione letale si è ritorta contro coloro che ipocritamente, per calcolo politico, ne hanno sostenuto l’introduzione. Ora, la parola è alla Suprema Corte. Se la crudeltà della «morte dolce» americana verrà riconosciuta, gli Usa, credo, saranno probabilmente costretti a fare buon viso a cattivo gioco, e applicare la moratoria promossa dall’Italia approvata all’Onu. Come altre volte, la Suprema Corte potrebbe scrivere una sentenza veramente storica.