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 2008  gennaio 13 Domenica calendario

ROMA La chiave è lassù, nel ripiano più alto della scansia. Il bambino non vede l´ora di restare solo, salire sulla seggiola, prenderla e aprire la porta della stanza delle meraviglie

ROMA La chiave è lassù, nel ripiano più alto della scansia. Il bambino non vede l´ora di restare solo, salire sulla seggiola, prenderla e aprire la porta della stanza delle meraviglie. Che non è quella dei giochi, ma il sancta sanctorum di casa, dove è nascosto il pianoforte. Va in estasi quando affonda le mani nella tastiera e comincia a cavarne suoni meravigliosi. Per lui è come il barattolo di marmellata. «Avevo quattro anni», ricorda Giovanni Allevi, «e già avevo svelato il mistero dei tasti bianchi e neri. Quando i miei uscivano, entravo nella stanza e improvvisavo». Mamma è una cantante lirica, papà un clarinettista, sanno che quella del musicista è una carriera dal fascino perverso. Tanti sogni, poca gloria, guadagni miseri. Cercano di non incoraggiare Giovanni. Ma al saggio della scuola il bambino scopre la sua disobbedienza e li lascia di stucco suonando un perfetto preludio di Chopin. A quel punto devono arrendersi alla vocazione. Per Giovanni ci sono il liceo nella nativa Ascoli Piceno, una laurea in filosofia, ma anche vent´anni di conservatorio. Diventare un concertista lo attrae, ma l´accademia gli va stretta. Sogna di suonare la sua musica, in jeans e scarpe da tennis. Jovanotti intuisce il suo talento, e soprattutto il suo potere di comunicatore pop. Gli dà la possibilità di incidere due dischi, 13 dita nel 1997 e Composizioni nel 2003, due buchi nell´acqua. Nel 2000, a trentun anni, per sbarcare il lunario fa ancora il cameriere. Il 7 dicembre, alla cena d´inaugurazione della stagione della Scala, si fa assegnare il tavolo del maestro Muti. « Al momento di servire l´arrosto vuoto il sacco, gli dico che sono un compositore e gli lascio una copia di 13 dita. Ma quando alla fine torno a sparecchiare, scopro che l´ha tristemente dimenticato sulla sedia. Pensavo fosse finita lì, invece quattro mesi fa al Teatro Sociale di Piangipane di Ravenna l´organizzatore entra in camerino con gli occhi fuori dalle orbite: in prima fila c´è Riccardo Muti. Per me è come suonare davanti al presidente degli Stati Uniti. Il maestro ascolta tutto il concerto, partecipa con entusiasmo. Alla fine, m´invita a cena. Non ci diciamo una parola, ma al momento di congedarci: "Mi faccia avere le sue partiture d´orchestra". E sua moglie Cristina, simpaticamente: "Questa volta non resteranno sulla sedia"». Nel 2004, perfetto alieno a New York, Allevi chiama il Blue Note, il più prestigioso jazz club del mondo. Agosto: la segretaria è in ferie, risponde Stephen Bensusan in persona. Gli concede un´audizione, poi lo scrittura per due serate, i due primi sold out della sua carriera, l´inizio della strada in discesa. Gli album No concept, Joy, il recente Allevilive e le ristampe dei primi due flop vendono un totale di duecentocinquantamila copie. Giovanni Allevi diventa un fenomeno. «E lì comincia il mio incubo ricorrente», scherza, infilandosi l´indice nei riccioli. «Sono sul cornicione di una casa e sto per perdere l´equilibrio. Cado nel vuoto, mi sveglio a metà del volo, prima di schiantarmi a terra. Altre volte sono su uno scooter e imbocco un cavalcavia che si fa sempre più alto e più stretto. Mi trovo a cento metri d´altezza, tira un vento fortissimo che rischia di scaraventarmi di sotto. Perdo l´equilibrio, precipito, ma come al solito mi sveglio prima di sfracellarmi al suolo. Mi sono documentato e ho steso la diagnosi: è l´incubo di chi mette continuamente in discussione se stesso, di chi cerca di superare i propri limiti, di chi vuole volare alto. Nella mia vita non ci sono certezze, tutto dipende dalla passione travolgente con cui riesco a fare il mio mestiere. Per quanto entusiasmante possa essere il mio lavoro, c´è sempre un´inquietudine di fondo, il desiderio di una sicurezza che non potrà mai esserci. Sono un equilibrista senza rete». Ordina al cameriere i suoi piatti preferiti, non si nega niente, dall´antipasto al dolce. Poi incomincia a scrivere un messaggio sul cellulare. Lo riconoscono, gli chiedono autografi. Nel 2007 ha tenuto più di centotrenta concerti, otto con i prestigiosi Berliner Philharmoniker, tre sold out all´Auditorium di Roma. Ripartirà in tour il 23 febbraio proprio dall´Auditorium (quaranta date già confermate), poi inciderà il primo disco orchestrale, una nuova sfida. I suoi fan sono studenti, professionisti, disoccupati. E tanti bambini. Li incanta con la semplicità, li stupisce col virtuosismo. Infine, novello pifferaio di Hamelin, li guida per mano dentro partiture complesse ed estremamente strutturate. «Alla gente piace la mia solarità infantile che si esprime attraverso formule tutt´altro che semplici. Di fatto è come se la mia musica fosse una filastrocca. Forse per questo i bambini si sono avvicinati in massa alla mia musica», spiega. Poi ricomincia a scrivere messaggi. Per qualche minuto sembra sprofondare in un´altra dimensione. Torna coi piedi per terra quando si parla dei suoi detrattori, di quelli che lo accusano di essere troppo leggero, banale addirittura, paragonandolo a Richard Clayderman o Stephen Schlaks. «Vede, di fronte alla musica io sono inerme», spiega. « lei che viene a trovarmi, che entra nella mia testa. La sua semplicità è il frutto di una complessità risolta che ha richiesto anni di studio accademico durissimo. Attraverso la semplicità, l´ascoltatore può condividere con me una complessità che rimane sullo sfondo. I miei detrattori temono la semplicità. Veniamo da un secolo, il Novecento, che ha rappresentato l´esaltazione della complessità. Io, invece, in quanto contemporaneo, ne celebro la fine, e vivo sulla mia pelle il fascino e la bellezza di una semplicità che ha alle spalle un grande lavoro. così che hanno fatto tutti i grandi del passato. Seguo le orme di Chopin, Liszt, Stravinsky e Ravel: compositori-esecutori che suonavano la propria musica. Questa figura si è dissolta, nel Novecento, a favore dell´esecutore (Pollini e Richter, ad esempio). Anch´io sono cresciuto con il mito del pianista che esegue musica scritta due secoli prima, del concertista sublime. Poi in un concerto a Napoli, diciassette anni fa, inserii alcune mie composizioni. Perché in quel momento mi sentivo talmente libero da voler condividere con quelle cinque persone qualcosa di assolutamente mio». Cinque? «Purtroppo vennero solo in cinque. Dissero, se preferisci non suonare, non ti preoccupare per noi. Ma io suonai e li stupii. Lì scattò la scintilla, capii che dovevo eseguire le mie cose. Non potevo certo immaginare che un giorno sarebbe esploso questo pandemonio e avrei potuto calcare le scene dei teatri più prestigiosi in felpa e scarpe da tennis. C´è voluto del coraggio per rompere lo schema tradizionale, rischiavo di rimanere tagliato fuori dai giochi. In effetti per tanti anni è stato così, ma alla fine ho avuto la forza di costruire un circuito nuovo, tutto mio, e per fortuna è andata bene». Dopo questo straordinario successo, vien da pensare a come reagirebbe l´accademia se un giorno Allevi decidesse di riprendere la sua carriera di concertista al servizio di Brahms e Chopin. «Ormai si è creato un rapporto talmente bello con il pubblico, di fiducia e stima reciproca, che se un giorno volessi tornare a suonare Brahms o Ravel come facevo a diciotto anni, non ci sarebbe nessun problema», risponde, mentre scrive l´ennesimo sms. «Ma francamente non ne vedo l´esigenza artistica. L´accademia sono io, mi sono formato lì dentro con venti anni di studio. Se improvvisamente sentissi l´impulso irresistibile di rinnegare Joy per dedicarmi a Beethoven, lo farei senza esitazione. La lunga gavetta mi ha fatto capire che da una parte ci sono io e quel che voglio profondamente, dall´altra c´è il mondo, che può essere pronto a recepire quel che faccio oppure no; nel mezzo, mille variabili che non posso controllare. L´importante è che io trovi sempre la forza e la voglia di suonare la mia musica. Può anche accadere che ci siano solo cinque persone ad ascoltarmi: ma se si emozionano, per me è un successo. Fa parte del mistero della musica». Parla della musica con la stessa devozione con cui un sacerdote cercherebbe di spiegare il mistero della Trinità. Lei è religioso? «Chi fa musica non può non esserlo. Chi ha a che fare con un´attività creativa di qualsiasi tipo non può non rendersi conto della trascendenza, del mistero che c´è dietro la quotidianità. Poi di fatto, per tradizione, mi trovo a condividere i valori del cattolicesimo». Lo scorso settembre, dopo l´esibizione a Loreto, si è sperticato in lodi per Papa Ratzinger in visita pastorale. «Lei dimentica che Benedetto XVI è un pianista, l´ho visto in un video mentre suona e ho capito il senso della sua solitudine, quella di chi ha toccato con mano la musica, di chi resta rapito dal mistero della trascendenza attraverso la musica. Tanti ragazzi che mi scrivono mi hanno fatto capire che nella società la musica è vissuta come un abito che s´indossa per comunicare, un po´ come il calcio. Francamente mi spaventa di più il mondo del calcio, dove tante persone, invece di inseguire il proprio sogno, vivono in trepidazione per il risultato di una partita. Certo, tutto è molto più facile quando ci sono gli altri a suggerirti quel che devi sognare e in cosa sperare. Questo mi fa paura della società contemporanea». Riprende a scrivere sms. Poi si scuote e riprende: «Indubbiamente indossare il vestito della musica classica può essere un problema per un adolescente. Molti mi dicono di sentirsi soli, tagliati fuori dal branco. Gli rispondo che sono sempre le persone che stanno da parte a indicare la strada agli altri. Dedico al pubblico tanto tempo, rispondo a tutti. Anche ai bambini. Uno mi ha scritto: adesso ti saluto, vado a giocare. Che tenerezza. Una ragazza, a Milano, mi ha fermato in metropolitana. Mi ha dato del lei: cosa ci fa qui in mezzo a noi comuni mortali, non gira in limousine? Le ho risposto: non ho l´automobile. Le ho anche detto che non sono miliardario e che, in questo momento della mia vita, non mi scambierei con nessun miliardario al mondo. E se anche lo diventassi, continuerei ad andare in metropolitana, perché non rinuncerei mai a parlare di musica, filosofia e architettura con una ragazza di diciotto anni. Mi fa sentire contemporaneo». Ricomincia a scrivere qualcosa sulla tastiera del cellulare. Scusi se mi permetto, ma a chi manda tutti questi sms? «A me stesso. Sono appunti. Gliel´ho detto, la musica viene a trovarmi, se non l´appunto rischio di dimenticarla. Legga qui». Mostra lo schermo del telefonino, c´è il contenuto dell´ultimo sms ancora incompleto: uno mi fa sol due… Finalmente il telefono squilla davvero: parla di concerti, accordatori, nuove date, prove. «Tante volte m´immagino recluso, in carcere, con il pianoforte come unico compagno e la possibilità di dedicare tutto il mio tempo alla composizione», sbotta. il prezzo che si paga quando un artista diventa pop: non essere più padroni del proprio tempo. A proposito, e Jovanotti? «Mai più visto». Ma come, neanche una telefonata dopo tutto questo successo? «Avrà avuto da fare».