Michele Smargiassi, la Repubblica 13/1/2008, 13 gennaio 2008
MICHELE SMARGIASSI
milano
«Ecco, questo va quasi bene...». Bob Noorda scartabella per dieci minuti buoni tra le decine di foto di segnali stradali sparse sul suo tavolo per trovarne almeno una su cui non dire tutto il male possibile. un cartello dei più semplici, un segnale di preavviso di svincolo autostradale: freccia in alto Pavia, freccia a destra A4 Varese. «Qui almeno c´è un minimo di allineamento, un tentativo di organizzazione degli spazi...». Ma forse la sua è solo buona educazione. Noorda, nato ad Amsterdam nel 1927, vive ormai da decenni in Italia, ma ha ancora l´aspetto e i modi di un gentiluomo olandese dell´età di Rembrandt. Nel biancore un po´ disordinato del suo studio milanese accetta di buon grado il gioco che gli proponiamo, un gioco ormai faticoso per lui, che a ottant´anni è stato tradito dalla vista, lo strumento che lo ha reso uno dei più grandi visual designer della nostra epoca, padre di celeberrimi logo (il cane a sei zampe dell´Agip, la A di Mondadori, la F di Feltrinelli) e della segnaletica delle metropolitane di Milano, New York e São Paulo.
Il gioco è: facciamo l´esame di qualità alla segnaletica stradale italiana. Cioè al mass medium che riempie i nostri sguardi quanto la pubblicità e più della tivù, ma molto più vitale e necessario di entrambe: tutela la nostra sicurezza, e neppure ce ne accorgiamo. Eppure i segnali sono milioni. In media quarantotto per chilometro di strada. Per poco che ci sediamo al volante, ne incrociamo almeno un migliaio al giorno. «Troppi per essere percepiti», osserva Noorda, e il paradosso è solo apparente: non sapremmo ricordare l´ultimo che abbiamo visto. Custodi silenziosi delle nostre vite, suggeritori muti dei nostri itinerari, servizievoli chauffeur a cui non solo non diciamo mai grazie, ma di cui non ispezioniamo neppure la divisa. Mettersi a guardarli in faccia, a lungo, studiarli come quadri di un´esposizione, anziché percepirli nella distrazione come facciamo ogni giorno, fa un effetto strano.
Allora, maestro Noorda, almeno questo lo mettiamo nel mucchio dei promossi? «No. Ho detto che questo cartello va quasi bene. Ma quasi non è ancora abbastanza. In queste cose, il livello minimo è la perfezione». E la perfezione, nell´Olimpo del design, è fatta di millimetri di spessore della gamba di una M, di gradi di curvatura del cerchio di una O, perfino del vuoto che separa due righe di testo. Per Noorda non c´è niente di strano se venti stati americani stanno spendendo milioni di dollari per sostituire i segnali indicatori delle loro autostrade con cartelli che, a prima vista, sono identici. Ma un gruppo di designer ha scoperto che il tradizionale set di caratteri in uso da decenni, l´Highway Gothic, gotico autostradale, è poco leggibile di notte, quando riflette la luce dei fari, mentre un nuovo font disegnato allo scopo, e battezzato non a caso Clearview, vista acuta, funziona splendidamente. Le differenze tra i due alfabeti sono minime: il ricciolo della a minuscola che sale un po´ di più, l´occhiello della e un po´ più grande; ma «è come guidare con un paio d´occhiali nuovi», garantisce entusiasta il New York Times Magazine. «Hanno imparato da me», si concede Noorda, «anch´io nel ”71, per il metrò di Milano, modificai il vecchio Helvetica perché fosse meglio leggibile dalle carrozze in movimento».
In Italia, i caratteri dei segnali stradali non hanno neppure la dignità di un nome. Una legge dello stato, un dpr del ”92 che ha imposto finalmente l´uniformità di un alfabeto standard all´allegra anarchia tipografica vigente fino ad allora, li nomina semplicemente «alfabeto normale» e «alfabeto stretto». A giudicare dai modelli forniti dall´allegato tecnico, appartengono anche loro alla grande famiglia Helvetica, il carattere "bastoni" che esattamente cinquant´anni fa con la sua svizzera austerità rivoluzionò la grafosfera. Ma chi li ha disegnati? Un mistero. Sulla base di quali criteri? «Massima leggibilità», garantiscono ai piani alti del Ministero dei trasporti. Ma non c´è traccia di studi specifici, né prima né dopo. Forse fu fatta qualche prova pratica. Insomma, all´efficacia del lettering di Stato bisogna credere, è il caso di dire, sulla parola. Noorda si rifiuta di farlo: «Usare due caratteri nella stessa segnaletica è il primo grave errore. Questo carattere "stretto", poi, è orrendo». Serve per le parole lunghe, quelle che altrimenti non ci stanno nel cartello. «In una segnaletica coerente, se usi due caratteri, o due corpi dello stesso carattere, indichi due cose diverse», scuote la testa, «Casalpusterlengo e Rho devono essere scritti allo stesso modo, oppure è il caos». Secondo errore: l´uso di sole maiuscole per i nomi delle città. Decifrazione più lenta e faticosa. «Provi a leggere un libro scritto tutto in maiuscole, e vedrà. Anch´io feci quell´errore, nella metro di Milano», fa ammenda, «ma l´ho corretto a New York e São Paulo».
Negli anni Cinquanta un amico e collega di Noorda, Albe Steiner, ridisegnò la segnaletica di un intero comune, Urbino, trattandola come l´immagine coordinata di un´azienda. Ma cos´altro è la segnaletica stradale di una nazione, se non il suo smisurato biglietto da visita? Purtroppo, visto da una qualsiasi strada, il brand Italia è irriconoscibile, anonimo, caotico, stratificato. L´aggiornamento segnaletico procede per aggiunte, raramente per sostituzioni. La longevità media di un segnale stradale italiano è di ventidue anni. Vecchi cartelli pre-´92, con il loro lettering fuori norma, resistono impavidi su un quarto delle strade statali. Un censimento recente del Centro studi 3M sulla sicurezza stradale ha scoperto che quattro cartelli su dieci non sono in regola con il Codice della strada. Ma nessuno se ne cura. Non si sa chi debba farlo. Di fatto, quasi un segnale su quattro è orfano, anzi clandestino: non riporta sul retro il timbro di legge, dunque non si sa chi l´ha messo, né chi lo dovrebbe sostituire. Cartelli irresponsabili, nel senso che non rispondono a nessuno. Ma anche i segnali nuovi di zecca sono spesso improvvisati e arbitrari. Ogni nuova strada deve dotarsi per legge di un "piano segnaletico", che però definisce solo numero, luogo e tipo dei segnali da istallare, mentre il layout reale di ogni singolo cartello indicatore nasce quasi sempre dallo schizzo frettoloso di un capocantiere dell´Anas, ricopiato "in bella" da aziende produttrici che neppure sanno dove quel cartello sarà collocato: così la geografia della segnaletica perde ogni contatto con la realtà "sul campo". Gli incroci appena un po´ più complessi di un banale quadrivio mandano in tilt l´improvvisato designer. La voglia di "dire troppo", poi, ingombra i pali e affolla i riquadri di indicazioni superflue, ridondanti, inutili, ingannevoli. «Per realizzare buoni segnali basta leggere il dpr 495 che è dettagliatissimo e pieno di modelli», rivendica il massimo sacerdote della segnaletica pubblica, l´ingegner Francesco Mazziotta del Ministero dei trasporti, «purtroppo i gestori delle strade, a cui spetta tradurre i modelli in cartelli, si prendono spesso troppe libertà».
«Ma anche i modelli sono sbagliati», contesta Noorda. «Guardi: questa scritta galleggia nel vuoto. E questi interlinea perché sono uno diverso dall´altro? Qui non hanno neppure allineato le cornici. Alcuni indicatori di direzione sono fatti a forma di freccia, altri hanno le frecce disegnate dentro... Bisognerebbe riprogettare integralmente il sistema, e dovrebbe farlo un designer. Il guidatore deve trovare in pochi attimi l´informazione che vuole dove sa di trovarla, qui invece vedo variabilità assoluta, non c´è organizzazione né razionalità». Verdetto finale: «I cartelli stradali italiani sono desolanti». Vuol dire che sono inefficaci, o che sono anche brutti? Sorride ironico: «Scusi, ma non capisco questa domanda». Noorda è un erede di Lloyd Wright: per lui la forma è la funzione. «Questi cartelli che lei mi fa vedere sono peggio che brutti: sono sbagliati».
Ma esiste il cartello giusto? Assolutamente perfetto? L´ammonimento murale, legge per lapidem, è un´arte difficile. I muri hanno spesso orecchie, ma faticano ad avere bocche. O ne hanno troppe. Dai graffitisti di Pompei ai writers di oggi, cartelli e muri sono spazi di conflitto, che il potere gestisce e controlla a fatica. I writer leghisti padanizzano agevolmente i nomi delle cittadine lombarde sui cartelli: basta un fiato di bomboletta. Scrittura chiama scrittura, sulla strada tutti vogliono parlarci: la concorrenza della réclame murale è annichilente, e l´epigrafia pubblica è un´arte in decadenza, batte in ritirata: troppo vulnerabile. La voce della legge ammutolisce, rinuncia alla parola. Siamo al tramonto di un´era bimillenaria inaugurata dalle pietre miliari romane, che unificarono il mondo con la severità delle loro lettere scolpite nella pietra. I segnali stradali di oggi tendono a trasformare ogni messaggio in simbolo. Uniformati nel dopoguerra da una serie di convenzioni internazionali, i segnali stradali "universali" sono stati i diretti precursori dell´ondata di icone che trabocca oggi da ogni schermo di computer o display di cellulare. Indietro non si torna: una generazione alfabetizzata da Bill Gates e non più da Gutenberg avrà sempre meno bisogno di comandi verbali. La segnaletica stradale ora rincorre i quadratini cliccabili dei software. Messaggi che in parole richiederebbero qualche riga diventano icone. Noorda ne è convinto, e ha dato anche un suo contributo: disegnò per Agip il simbolo senza parole del distributore self-service, ora comune ovunque.
Restano in forma di scrittura ormai solo i nomi di città. La loro irresistibile individualità resiste all´iconizzazione. Ma non alla smaterializzazione. Le autostrade, non-luoghi a pieno titolo per Marc Augé, enunciano sui loro verdi cartelli indicatori le città che evitano accuratamente. Erogano un senso di presenza virtuale: possiamo dire «sono a Bologna» senza neanche vedere le Due Torri. I cartelli indicatori sono macchine proustiane, evocano in assenza: a Marcel bastava leggere la parola "Parma" per immaginare qualcosa di «compatto, liscio, dolce e color malva», insomma per ridurre una città a un segno. Per quanto tempo il nome resisterà all´immagine? Vedremo prima o poi un Colosseo stilizzato sulle autostrade che portano a Roma, una Tour Eiffel sullo svincolo per Parigi? E l´alfabeto sarà definitivamente espulso dalla grafosfera stradale?
Si direbbe di no. Cacciate dai cartelli fissi, le parole ricompaiono su quelli mobili, sui pannelli "a messaggio variabile", inventati dalle autorità stradali per comunicare in tempo reale con l´utente, ma senza sapere bene cosa dirgli, cartelli tecnologici ma spesso afasici, che in mancanza di altro scivolano sul paternalista, "Ricordati di allacciare le cinture", sul menagramo, "Qui trentacinque morti in un anno per eccesso di velocità", quando non sul filosofico, "La sicurezza è un bene di tutti". Ma è un segno: la comunicazione su strada non riesce a rinunciare all´alfabeto. Del resto, se le novità vengono dagli Usa, i segnali stradali americani restano tuttora i più verbosi del mondo. Obblighi di circolazione che già da decenni in Europa sono tradotti in pittogrammi, nelle strade di New York o di Los Angeles sono ancora espressi a tutte lettere: "Fermati qui col rosso", "Velocità minima quaranta miglia", c´è chi giura di aver visto un "Don´t you even think to park here", che non ti venga neanche in mente di parcheggiare qui. Dev´essere perché gli americani sono ancora, nel profondo, puritani come i loro padri fondatori: sospettosi verso le immagini, rispettosi delle Scritture, credono che un comando sia davvero vincolante solo se espresso in parole. «Può essere», concede Noorda, «però in cima alle loro chiese mettono un pittogramma: la Croce». Che in fondo è il modello ideale e irraggiungibile di ogni segnaletica stradale: da duemila anni, a milioni di esseri umani basta avvistare quei due semplici tratti, di qualsiasi dimensione e colore, per riconoscere la retta via.