Sergio Romano, Corriere della Sera 12/1/2008, 12 gennaio 2008
Abbiamo appena salutato l’arrivo del 2008 e subito mi sovviene che quest’anno «celebreremo» il quarantennale del «mitico» ’68
Abbiamo appena salutato l’arrivo del 2008 e subito mi sovviene che quest’anno «celebreremo» il quarantennale del «mitico» ’68. quindi verosimile che nei prossimi mesi si andrà a parlare di quell’insieme di eventi che cambiarono il mondo o quanto meno lo condizionarono per un bel po’. Ma proprio questa è la questione. A distanza di anni credo che sia necessario un ripensamento critico e non conformista di quella stagione. E ciò a maggior ragione nel nostro Paese che sembra proprio non avere ancora metabolizzato a distanza di decenni quegli eventi, essendone in larga misura ancora prigioniero. Parliamo tanto di valori da ritrovare come il merito e la capacità, del forte degrado della scuola e dell’università dove imperano superficialità e mediocrità, della latitanza del principio di responsabilità degli individui, e si potrebbe continuare così per molto. E allora perché non dire chiaramente che in larghissima misura la causa di tutto ciò risiede proprio in quella subcultura che fu diffusa a piene mani in quel periodo? A distanza di quarant’anni sapremo dire con chiarezza che quel periodo generò danni socioculturali, prima che economici, che stiamo pagando caramente? Mariano Satriano MSatriano@sealink.it Caro Satriano, L a parola che molti intellettuali italiani usano con maggiore compiacimento, quando parlano del loro Paese, è «laboratorio». Abbiamo molti difetti e commettiamo molti peccati civili, ma avremmo la caratteristica, secondo questi osservatori, di essere un «laboratorio », vale a dire il luogo in cui si fanno spesso, nel bene e nel male, esperimenti politici e sociali – il fascismo, la democrazia consociativa, l’eurocomunismo, la rivoluzione giudiziaria degli anni Novanta – che verranno successivamente ripetuti in altri Paesi. Persino «il ’68» scoppiò in Italia nel 1967 e precedette quindi di alcuni mesi quello di Parigi. Chi si compiace di questa caratteristica italiana, dimentica tuttavia la ragione per cui questi rivolgimenti accadono da noi prima che altrove. Come disse Winston Churchill in altre circostanze, l’Italia è il «soft belly», il ventre molle d’Europa, il Paese dove le pubbliche istituzioni e la morale civile sono meno solide e quindi meno capaci di resistere all’impatto dei movimenti radicali o di correggerne le tendenze. La «rivoluzione » studentesca della seconda metà degli anni Sessanta fu ovunque una rivolta contro l’autorità: quella dei genitori nella famiglia, dei professori nella scuola, del clero nella Chiesa, dei padroni nelle aziende, dell’uomo sulla donna, dello Stato sui cittadini. Ha lasciato dietro di sé ricadute importanti che hanno modificato molti comportamenti sociali, ma nei maggiori Paesi democratici i «rivoluzionari», nel giro di qualche mese, sono tornati a scuola e le istituzioni, dopo qualche riforma, hanno ricominciato a funzionare normalmente. Persino in Germania, dove la lotta contro il terrorismo durò per qualche anno, i poteri pubblici agirono con grande fermezza e poterono contare, anche quando adottarono misure draconiane, sul consenso della nazione. Da noi invece il ’68 si è cronicizzato e incancrenito producendo scioperi, assenteismo, ribellismo sociale e un terrorismo diffuso che è stato protetto per alcuni anni dalla simpatia o dalla colpevole neutralità dell’ambiente in cui è nato. Anziché reagire con fermezza, i partiti hanno impiegato buona parte del tempo a lanciarsi reciproche accuse. E quando i maggiori partiti, finalmente, sono riusciti a fare fronte comune, poco o nulla è stato fatto per restaurare l’autorità là dove era stata maggiormente aggredita e contestata. questa la ragione per cui in Italia è ancora possibile interrompere un servizio ferroviario, bloccare un’autostrada, occupare una scuola, punire un insegnante per avere cercato d’imporre la disciplina, trattare il teppismo come un malessere sociale anziché come un reato, imbrattare i muri di una città o inscenare fenomeni di guerriglia urbana come a Genova nel luglio del 2001 o a Napoli in questi giorni. Questo continuo ’68 ha avuto effetti disastrosi per la qualità della nostra classe dirigente e per l’efficienza delle istituzioni. Ed è in buona parte responsabile della esasperante lentezza con cui l’Italia affronta i problemi della sua modernizzazione.