Maurizio Ferrera, Corriere della Sera 12/1/2008, 12 gennaio 2008
N el mondo attuale si parlano quasi 7000 lingue (di cui 500 circa in via di estinzione). Il cinese mandarino è l’idioma più parlato, ma come tutti sanno l’inglese si è ormai affermato come lingua dominante della comunicazione globale
N el mondo attuale si parlano quasi 7000 lingue (di cui 500 circa in via di estinzione). Il cinese mandarino è l’idioma più parlato, ma come tutti sanno l’inglese si è ormai affermato come lingua dominante della comunicazione globale. Gli anglofoni madrelingua sono quasi 350 milioni, concentrati in Nord America, nelle isole britanniche e in Oceania. Ma nei cinque continenti vi sono almeno altri 400 milioni di persone che parlano l’inglese come seconda lingua. Ogni epoca ha avuto un idioma privilegiato. Nel passato l’uso e l’apprendimento della «lingua franca» riguardava però solo ristrette cerchie di élite (diplomatici, intellettuali, commercianti) mentre ora il fenomeno riguarda le masse. L’inglese ha conquistato il predominio assoluto nel nuovo grande mezzo di interconnessione planetaria: Internet. probabile che non si tratti solo di un’egemonia temporanea (come è stato per il francese o per il latino in altre epoche storiche) ma del primo passo verso un’irreversibile «anglofonizzazione» di tutto il globo. L’affermazione di una lingua franca di massa pone problemi inediti non solo di ordine pratico, ma anche etico. Chi non è di madrelingua inglese deve fare grossi sforzi per impararlo, sottraendo tempo e denaro ad altre attività. E anche quando diventano fluenti, i non madrelingua si trovano comunque a fare i conti con un handicap comunicativo rispetto ai madrelingua. Per alcuni popoli (pensiamo soprattutto ai francesi) l’egemonia dell’inglese solleva inoltre delicate questioni di dignità e orgoglio nazionale: la lingua non è solo un mezzo di comunicazione, ma anche l’espressione di una determinata cultura, nel senso più ampio del termine. E l’anglofonizzazione rischia di portare con sé una vera e propria anglicizzazione culturale. Da qualche tempo questi nuovi dilemmi di «giustizia linguistica» sono oggetto di un interessante dibattito tra filosofi ed economisti. La diffusione di una lingua franca va considerata come un bene pubblico che avvantaggia tutti. Gli anglofoni madrelingua ne traggono molti benefici ma non partecipano ai suoi costi. Essi possono parlare con il mondo (fare affari, diffondere le proprie idee, godersi una vacanza esotica) senza sottoporsi alla fatica di apprendere la lingua franca. Alcuni ricercatori francesi hanno stimato che padroneggiare l’inglese può richiedere fino a 10.000 ore di «fatica»: un bel risparmio di tempo per i madrelingua. Per finanziare i costi di apprendimento dell’inglese il governo di Parigi è costretto a spendere 100 euro pro capite all’anno più di quanto non debba spendere il governo di Londra per finanziare corsi di lingue diverse dall’inglese. Se le cose stanno così, non sarebbe giusto chiedere agli anglofoni «nativi» di contribuire in qualche modo alla produzione di questo bene pubblico? Il filosofo belga Philippe Van Parijs ha recentemente suggerito alcune possibili strategie per realizzare una maggiore equità linguistica a livello globale. La strategia più ovvia è quella di imporre una «tassa» ai madrelingua, da versare in una sorta di cassa comune per sussidiare almeno parzialmente i costi di apprendimento dei non madrelingua. La determinazione esatta del contributo e dei sussidi è però questione delicata. Imparare l’inglese consente a un francese di comunicare con un americano, ma anche con un giapponese o un russo che parlano anch’essi la lingua franca: non sarebbe giusto chiedere ai madrelingua di finanziare questa fetta del «bene pubblico», che riguarda i rapporti comunicativi fra popoli non anglofoni. Inoltre l’apprendimento dell’inglese è più difficile per un cinese che per un francese (o in generale per un parlante di lingue indo-europee): dunque i cinesi dovrebbero ricevere un sussidio maggiore. Il ragionamento di Van Parijs è sottile e sofisticato. Tenendo conto di tutte le possibili correzioni, questo studioso azzarda una stima quantitativa per due paesi come Gran Bretagna e Francia: il contributo «equo» che il primo paese dovrebbe versare alla cassa comune è di 500 euro pro capite all’anno, mentre la Francia dovrebbe ricevere un sussidio di 25 euro pro capite. Le probabilità che i governi dei paesi anglofoni accettino proposte come queste sono ovviamente bassissime. Van Parijs raccomanda però che il problema venga almeno sollevato nei vari «fori» di negoziato internazionale. Negli anni Ottanta Margaret Thatcher bloccò a lungo le decisioni della Comunità europea perché il Regno Unito pagava più di quanto riceveva da Bruxelles. Forse gli altri leader europei avrebbero potuto ricordare alla Lady di ferro (e a Blair, il quale rinegoziò l’accordo nel 2005) che il Regno Unito trae un beneficio «linguistico » molto più elevato, anche sul piano finanziario, del suo saldo negativo verso il bilancio comunitario. Qualche commentatore britannico ha fatto osservare che l’adozione dell’inglese come lingua franca espone gli anglofoni anche a qualche svantaggio: ad esempio al rischio di essere «spiati» da chi intercetta le loro comunicazioni o «sfruttati» da chi fruisce gratuitamente di contenuti su Internet in inglese, magari violando le norme sul copyright. Questa obiezione ha fornito a Van Parijs lo spunto per una nuova proposta, forse più praticabile. I non madrelingua potrebbero essere compensati con norme sui diritti di proprietà intellettuale che prevedano sanzioni differenziate: alte e stringenti per gli anglofoni «nativi», basse e lasche per i non madrelingua, i quali potrebbero così più facilmente attingere alla ricca produzione intellettuale degli anglofoni. Una sorta di esproprio legale? In parte sì, ma giustificato. Per usare l’efficace metafora di Van Parijs: se quando c’è una riunione bisogna sempre andare a casa della stessa persona, è giusto che quella persona contribuisca ai costi di viaggio degli altri. Se non vuole contribuire, che almeno offra la cena. Se si rifiuta di offrirla, a questo punto gli altri hanno il diritto di servirsi dal suo frigorifero, anche senza permesso.