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 2008  gennaio 12 Sabato calendario

WASHINGTON

Spinti giù da una rupe. Impiccati con le gru. Puniti con l’amputazione di una mano e di un piede. Dall’inizio dell’anno il boia iraniano non si è mai fermato. Una macchina di morte che ha inghiottito criminali incalliti, oppositori politici e madri di famiglia. Almeno 23 persone sono state giustiziate e altre hanno subito severe menomazioni. Durante il 2007 le impiccagioni sono state 298, un po’ meno del doppio rispetto a quelle segnalate nel 2006 (177 i casi). Una campagna repressiva denunciata con coraggio dal Nobel per la pace, l’iraniana Shirin Ebadi, protagonista di un’iniziativa, insieme al suo gruppo, per fermare la barbarie. «I dati confermano che le esecuzioni sono in aumento – ha spiegato – Purtroppo in Iran le violazioni dei diritti umani non solo si stanno espandendo ma assumono anche nuove forme».
Le «nuove forme» sono le duplici amputazioni eseguite nei confronti di un gruppo di «criminali» del Balucistan. A cinque di loro sono state tagliate la mano destra e il piede sinistro. Una sentenza «esemplare» ma anche un modo per rendere difficile la vita ai condannati: sarà difficile poter camminare, anche con l’uso di una bastone o delle stampelle. Secondo fonti dell’opposizione i cinque non erano però delinquenti comuni. In realtà si è trattato di una rappresaglia contro i membri di una formazione armata, conosciuta come Jundallah, che opera al confine con il Pakistan e si è resa protagonista di numerosi attacchi contro i pasdaran. Un’attività spesso collegata ai piani di destabilizzazione sponsorizzati dagli americani per abbattere il regime dei mullah. Ma l’elemento politico è stato taciuto dalle autorità che hanno preferito accusarli di rapina e sequestro di persona proprio per poter infliggere la punizione.
Altri tre militanti – sempre secondo le medesime fonti – sarebbero stati impiccati.
Non meno feroce è apparsa la pena comminata a due giovani accusati di stupro: 100 frustate prima di essere spinti giù da un dirupo. Una riedizione in chiave iraniana della Rupe Tarpea. «La giurisprudenza prevede sistemi alternativi, ma i giudici preferiscono ignorarli», ha sottolineato l’attivista per i diritti umani Mohammed Dadkhah.
Una severità mostrata nei giorni scorsi con una raffica di impiccagioni, annunciate dalla stampa locale, e dall’esecuzione di una donna. Il due gennaio, nel famigerato carcere di Evin (Teheran), è stata giustiziata Raheleh Zamani. Madre di due bambini, 27 anni, era accusata di aver assassinato il marito tre anni fa. La ragazza si era sposata quando aveva appena 15 anni ed aveva subito maltrattamenti e sevizie da parte dell’uomo. Quando le autorità hanno annunciato la decisione di applicare la sentenza, un gruppo di femministe si è mobilitato chiedendo di rinviarla almeno di un mese. Un tentativo disperato per spingere i familiari del marito a sollecitare un gesto di clemenza. Il giudice, però, non atteso e ha lasciato mano libera al boia, forse perché non voleva infrangere la regola che impedisce le esecuzioni durante il mese di Muharram, iniziato giovedì. Per lo stesso motivo sono finiti sul patibolo due assassini e tre trafficanti di droga.
Con questi record è facile comprendere perché l’Iran abbia votato no – insieme agli Usa – alla moratoria sulla pena di morte varata dall’Assemblea dell’Onu.
Guido Olimpio In trincea
Shirin Ebadi, 60 anni, avvocato, ha ottenuto il Nobel per la pace nel 2003. Vive a Teheran dove insegna all’Università, con il marito e due figli.
Si batte per il rispetto dei diritti civili e per la protezione dei bambini