Dario Di Vico, Corriere della Sera 12/1/2008, 12 gennaio 2008
Spendere è una formula magica che aiuta i governi a recuperare popolarità in ogni caso? Se guardiamo alla recente esperienza del governo Prodi la risposta è no
Spendere è una formula magica che aiuta i governi a recuperare popolarità in ogni caso? Se guardiamo alla recente esperienza del governo Prodi la risposta è no. A fine dicembre la fiducia degli italiani nei suoi confronti era ai minimi nonostante l’esecutivo avesse stanziato, in rapida successione, risorse per il bonus incapienti, per aumentare le pensioni basse, per puntellare il comparto delle infrastrutture e, infine, avesse deliberato gli attesissimi sgravi dell’Ici che da soli costano 2-3 miliardi l’anno. In definitiva, pur avendo fatto uscire dai cordoni della borsa l’equivalente di quasi un punto di Pil, Romano Prodi non ha, almeno finora, riguadagnato il consenso degli italiani. Errare è umano, insistere un po’ meno. Eppure il dibattito che si è aperto dentro la coalizione di governo sul taglio delle tasse sui salari ha preso una vecchia piega. La tesi che va per la maggiore sostiene che investendo una decina di miliardi per ridare potere d’acquisto ai lavoratori dipendenti il governo se ne gioverebbe in termini: a) di consenso; b) di stabilità politica. Fortunatamente il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa non la pensa così. Teme la fregola da tesoretto, la tentazione dalla parte delle forze politiche di distribuire al proprio elettorato i proventi dell’extra- gettito fiscale. Ma al di là delle considerazioni di ordine politologico sul nesso tra spesa e consenso (l’immondizia di Napoli da sola è capace di annullare gli effetti non di uno ma di cinque tesoretti), non c’è da essere ottimisti sul futuro dell’economia mondiale. Le autorità monetarie americane parlano esplicitamente di un Paese in recessione e gli economisti che vanno per la maggiore oltreoceano sono per buona parte catalogabili nel filone catastrofista. L’esperienza dimostra che una recessione negli Usa trasmette i suoi effetti sull’Europa in men che non si dica. vero che il rapporto deficit-Pil è sceso al 2% e proprio ieri da Standard & Poor’s è arrivato all’Italia un attestato del risanamento dei conti pubblici ma con la prospettiva di un lungo ciclo economico avverso le probabilità di tornare in piena emergenza sono alte. Un brusco rallentamento della crescita mondiale avrebbe effetti negativi anche sulle entrate fiscali: i tesoretti di Vincenzo Visco sono maturati in gran parte sul lato delle imprese (nei primi 10 mesi del 2007 il gettito derivante dall’imposta sui profitti aziendali è cresciuto del 35,4% rispetto al medesimo periodo del 2006) e di fronte a una congiuntura negativa il miracolo non si ripeterebbe. Stando così le cose la cautela è d’obbligo e aspettare i risultati della Trimestrale di cassa o i dati di giugno sulle entrate fiscali prima di prendere impegni, appare una scelta giudiziosa. Sia chiaro, è giusto porsi l’obiettivo di ridurre il prelievo fiscale sui salari e sugli stipendi ma la strada virtuosa per centrare un obiettivo così ambizioso passa attraverso la riduzione della spesa pubblica. Se negli anni di Berlusconi la spesa corrente primaria, quella che serve a pagare pensioni e stipendi e a finanziare la sanità, era arrivata al limite del 40% del Pil, con il centrosinistra è scesa di poco, solo fino al 39,8%. Per finanziare il taglio delle imposte bisognerebbe riportarla ai livelli del primo governo presieduto da Prodi (non dalla Thatcher!) quando viaggiava attorno al 37,4%. Prima si comincia meglio è.