Abitare gennaio 2008, Joseph Grima, 11 gennaio 2008
Cavalcando la tigre asiatica. Abitare gennaio 2008. L’architetto danese Bjarke Ingels, collega di Minsuk Cho all’epoca della sua collaborazione con OMA, di recente ha detto: "Quando guardo gli edifici di Min mi sento sempre in colpa
Cavalcando la tigre asiatica. Abitare gennaio 2008. L’architetto danese Bjarke Ingels, collega di Minsuk Cho all’epoca della sua collaborazione con OMA, di recente ha detto: "Quando guardo gli edifici di Min mi sento sempre in colpa. Ho la sensazione di essere pigro e di utilizzare troppo pochi materiali nei rniei lavori. Osservando questi tre edifici, conclusi negli ultimi mesi, è difficile dargli torto e non solo per quanto riguarda la varietà dei materiali ma anche delle forme. Il guscio ricurvo, nastriforme e rivestito di acciaio dell’Oktokki Space Centre cela uno scheletro complesso in cemento armato e praticamente non ha nulla in comune, né stilisticamente né altrimenti, con la Xi Gallery, prototipo di una nuova tipologia edilizia indiscutibilmente coreana: quella del centro-culturale-con-ufficio-vendite-di-appartamenti-di-lusso. Le curve dell’Oktokki Space Centre sono sparite: la Xi Gallery è un paesaggio definito geometricamente da pendii, angoli, pozzi e piani inclinati rivestiti di tutti i materiali possibili e immaginabili, dai cuscinetti gonfiabili in ETFE ai campi di cactus minuscoli. Tutto ciò basta a far sembrare il negozio rivestito d’erba di Ann Demeulemeester sobrio e minimalista, tanto più che internamente lo è: il suo soffitto in cemento dalle curve sensuali e le pareti in cristallo avvolgente sarebbero quasi fin troppo signorili se non fosse per la vegetazione lussureggiante che si abbarbica al pavimento del punto vendita da dietro la tenda in vetro. Per essere in grado di comprendere almeno lontanamente l’opera di Minsuk Cho, bisogna investigare nel mondo affascinante di rapide trasformazioni, contraddizioni e idiosincrasie che caratterizzano la città in cui ha sede il suo studio, Mass Studies. L’architettura di Cho è un parto di Seoul e non solo della sua cultura architettonica, in quanto incarna ed esprime la incredibile energia latente di quella che superficialmente potrebbe sembrare una tetra città di condomini, ma in realtà è una delle metropoli più avanzate tecnologicamente, più saturate di media e più iperattive del mondo. Non stupisce il fatto che sia una cultura ossessionata dai fumetti e dai cartoni animati e che quindi il primo edificio ampiamente pubblicizzato di Cho in Corea sia stato un parco a tema dedicato a Dalki, un personaggio dei fumetti dai capelli rossi con un seguito quasi religioso da parte di un pubblico di tutte le età. Grazie alla ricchezza senza precedenti, oggi Seoul è un’incubatrice indiscussa di designer in ogni campo, tuttavia quando si tratta di catturare e riproporre in forma architettonica l’energia e il dinamismo unici di questa capitale asiatica, Cho appartiene a una categoria a sé stante. Joseph Grima Attualmente la Corea del Sud è una delle economie più solide del mondo, un capovolgimento incredibile rispetto alla Corea distrutta dalla guerra e impoverita di metà Novecento. In che modo la rapida industrializzazione del paese ha influito sullo sviluppo di una nuova identità architettonica? Minsuk Cho A mio parere, esiste un conflitto nei cervelli delle giovani generazioni. Nel corso dell’ultimo decennio molti giovani architetti sono rientrati dagli USA e dall’Europa, hanno aperto studi e negli ultimi anni hanno cominciato a ottenere committenze significative. Inevitabilmente, questo ci induce a porci la seguente domanda: in questo particolare momento in che cosa consiste l’identità coreana? Che rapporti abbiamo con la tradizione e con l’identità architettonica di questa cultura? La mia generazione ha risposto alla domanda mettendola da parte per un attimo. I cambiamenti che si sono verificati nell’ultitmo cinquantennio sono stati così profondamente inimmaginabili che qualsiasi tentativo di inventare una sorta di stile architettonico regionale avrebbe avuto invariabilmente una parvenza di artificialità e di affettazione. L’architettura coreana del passato si era sviluppata in un contesto che è talmente lontano dalla realtà attuale, che tale operazione sarebbe completamente priva di significato. Questo non significa che dobbiamo seguire ciecamente l’architettura occidentale, ma che dobbiamo elaborare un nuovo genere di identità coreana, più spontanea e aderente alla realtà odierna ad altissima densità di media. La svolta nella comprensione di tutto ciò è avvenuta in concomitanza con il progetto di ricerca sul delta del Fiume delle Perle di Rem Koolhaas, che mi ha indotto a considerare l’architettura e l’urbanistica come qualcosa di superiore alla pura estetica, come punto d’incontro ed espressione di innumerevoli forze sociali, politiche e culturali. Di conseguenza con il variare di tali forze, anche l’architettura deve cambiare. J.G. Secondo te, quando è cambiata la consapevolezza architettonica della Corea del Sud? M.C. Probabilmente all’inizio degli anni Novanta. Era un’epoca di incredibile ottimismo. L’economia coreana era in pieno sviluppo e per la prima volta ci sentivamo concretamente un paese prospero, moderno e industrializzato. Eravamo una delle nazioni più ricche del mondo e potevamo permetterci di invitare i migliori architetti internazionali a costruire in Corea. Praticamente tutti i grandi nomi dell’architettura di quel periodo hanno presentato qualche progetto per noi. Poi, quando si è verificata la recessione economica del 1997, quella che chiamiamo crisi del Fondo Monetario internazionale, quasi tutti quei progetti sono stati annullati. Fra i pochissimi sopravvissuti, cito a contributo di Rem Koolhaas al Museo d’arte Samsung (Leeum). Io avevo avuto l’incarico di collaborarvi e quella è stata la mia prima esperienza di partecipazione a un autentico progetto architettonico in Corea. J.G. Tu hai studiato per tre anni alla Columbia University, collaborato con vari studi negli Stati Uniti e in Europa, OMA compreso, e poi aperto un suo ufficio a New York con James Slade. Che cosa ti ha spinto a rientrare in Corea del Sud? M.C. Ho lasciato New York alla fine del 2001, poco prima dell’attacco terroristico al World Trade Center. Nonostante l’incredibile ottimismo che la permea, a New York è difficile che uno studio giovane e ambizioso riesca a farsi strada. Tutti sognano di costruire da zero e non solo di effettuare ristrutturazioni interminabili. Perciò, quando ho ricevuto l’incarico di progettare una casa ex novo nella periferia di Seoul, ho deciso di proseguire nella mia collaborazione con James Slade pur trasferendo una parte della mia attività in Corea. Allora, l’idea dello studio collegato in rete sembrava concretamente realizzabile e le probabilità di ottenere committenze su larga scala erano decisamente superiori a Seoul. Pensandoci bene, Seoul è un posto ideale per aprire uno studio in Asia, in quanto Tokyo, Pechino e Shanghai, alcune fra le città più grandi e densamente popolate del mondo, sono tutte a un’ora e mezza di distanza. In veste di studio internazionale abbiamo realizzato due progetti: Casa Pixel e il Parco a Tema di Dalki. Nei due anni in cui abbiamo lavorato in quel modo, è diventato sempre più evidente che il processo di progettazione non era costituito unicamente da fotografie inviate per e-mail e da disegni spediti avanti e indietro, così nel 2003 io e James Slade abbiamo deciso di proseguire ognuno per la sua strada. stato a quel punto che ho fondato Mass Studies. J.G. Seoul è molto diversa da New York. Questo cambiamento di contesto ha influenzato il tuo lavoro? M.C. Attualmente, la Corea è probabilmente il paese asiatico più impegnato a superare le frontiere dell’architettura verticale in tutti i sensi. A Seoul, per esempio, sorgono numerose torri che racchiudono o complessi cinematografici o centri commerciali, per cui non sono dotate di finestre. Mass Studies se ne sta occupando con sempre maggior frequenza. Abbiamo progettato il nostro primo grattacielo nel 2005 (Boutique Monaco, attualmente in costruzione). Ma in realtà lavorare a Seoul è molto più complesso. Dubito che esista un’altra città come questa. Seoul è ossessivamente prigioniera dell’economia di mercato, al punto che qualsiasi cosa, comprese le relazioni interpersonali, vengono quantificate. Per esempio, i figli della gente che vive in appartamenti da 200 metri quadri non frequentano i figli di chi vive in 100 metti quadri. tutta una questione di cifre, quantità e firme. Per certi versi, Seoul è la realizzazione del sogno di Hilberseimer. La città è costituita perlopiù da condomini, monoliti imponenti spesso disposti come mura lungo il fiume Han o le arterie principali. Sembra uscita da uno dei disegni di Hilberseimer. Di conseguenza l’esistenza urbana è inequivocabilmente sinonimo di vita in un appartamento. E per quanto siano piccoli e non particolarmente belli, gli appartamenti nei quartieri centrali possono arrivare a costare parecchi milioni di dollari. Noi li definiamo "pollai", insediamenti microscopici che ci si conquista lavorando tutta la vita. Il 90% di tutti gli edifici è costituito da condominì e gli appartamenti, come qualsiasi altra cosa, sono un bene firmato. Samsung, Daewoo e LG costruiscono tutti appartamenti e vi appiccicano i loro loghi all’esterno, proprio come sulle automobili. Un altro fatto incredibile di Seoul è che c’è talmente poco spazio che i sobborghi sono densamente popolati come il centro. Nelle città occidentali, le tipologie architettoniche che si trovano nelle periferie sono completamente diverse da quelle del centro. Là invece si trovano gli stessi grattacieli fino ai confini della città, l’unica cosa che cambia è l’ubicazione. Quindi si può capire quale soddisfazione sia stata per me ricevere l’incarico di progettare Casa Pixel da zero. Dal punto di vista immobiliare, Seoul è talmente effervescente che è diventata un punto di riferimento per altre città asiatiche emergenti. La Cina, il Vietnam, il Kazakhistan e altri paesi che stanno vivendo una rapida urbanizzazione hanno tutti preso Seoul come modello sul quale basare città intere. In parte il motivo è spiegato dal fenomeno della "via coreana’. La cultura popolare coreana è stata esportata in tutta l’Asia: gli sceneggiati, i programmi televisivi, la musica pop e la pubblicità sono le nostre industrie più importanti. Un tempo la fabbrica della cultura popolare dell’Asia era il Giappone, ma ora anche il Giappone guarda i programmi coreani. Si ritiene che la Corea abbia un approccio alla cultura asiatica piacevole, digeribile e occidentalizzato, ma soprattutto più sicuro e attraente dell’equivalente cinese. La Corea è il luogo dove si intersecano numerose realtà molto complesse, il che solitamente si manifesta nelle città. il paese è urbanizzato all’82%, da paragonare a una media globale del 50%. uno dei paesi in cui si lavora di più al mondo, addirittura il 60% in più degli olandesi. Ed esiste anche una forte segregazione sociale, in quanto numerosi condomini fungono da comunità chiuse verticali. Tutto ciò ha provocato un’autentica disgregazione del tessuto sociale, per cui la metà di tutti i matrimoni si conclude con il divorzio e la crescita demografica è negativa. La gente non vuole avere figli perché è stressante, costoso e competitivo. J.G. Qualcuno dei tuoi progetti si prefigge di affrontare direttamente l’incredibile complessità e stratificazione della città? M.C. L’ho fatto con numerosi progetti, ma uno in particolare affronta il meccanismo sociale idiosincratico di Seoul: è il Digital Flaneur. Un fatto interessante di Seoul è che è addirittura possibile viverci senza possedere nulla. Se si rinuncia al sogno borghese di vivere nei pollai alla Hilberseimer, si può condurre un’esistenza assolutamente decorosa anche senza fissa dimora. Esistono innumerevoli alberghi a capsula, bagni pubblici, punti Internet, palestre e sale giochi aperti 24 ore su 24 e poco costosi, dove si paga a ora. L’accesso ai bagni pubblici costa $10 al giorno e vi si organizzano persino corsi di yoga ed esibizioni di personaggi celebri. Bisogna sempre guadagnarsi da vivere, ma è fattibile. Si può avere un lavoro completamente privo di contratto, per esempio il servizio di corrieri lento che si avvale dei mezzi pubblici invece di moto o biciclette, ci mette un po’ più di tempo ma costa la metà al cliente. Molti pensionati sopravvivono in questo modo: basta avere un telefono cellulare a la capacità di trasportare fino a 3 kg di peso. J.G. Puoi parlarci del progetto dell’Oktokki Space Center, ultimato solo un paio di mesi fa? M.C. Il committente di questo edificio è il più importante costruttore di modelli architettonici della Corea. Il suo laboratorio ha 60 dipendenti e ha costruito il modello del Parco a Tema di Dalki esposto alla Biennale di Venezia nel 2004. Nutre un’ossessione particolare per lo spazio, i veicoli spaziali, i razzi, i satelliti e simili. Nel corso degli anni ha accumulato un assortimento incredibile di modelli di velivoli di tutti i generi e si è persino recato negli Stati Uniti per ottenere informazioni direttamente dalla NASA. Ha addirittura costruito copie a grandezza naturale di alcuni dei veicoli spaziali Apollo. A un certo punto, tutti questi modelli sono stati esposti a una mostra a Seoul che ha avuto un tale successo che ha deciso di costruire una sala espositiva permanente per custodirli e ha incaricato noi di progettarla. L’intenzione era che non assomigliasse affatto a un edificio. La parte inferiore, la sala espositiva dei modelli, è buia in modo da dare l’illusione di essere nello spazio. La torre ha una piattaforma d’osservazione in cima, con vista sull’area circostante e un telescopio per osservare le stelle di notte. Joseph Grima Joseph Grima (Francia, 1977), architetto e ricercatore. Vive a New York, USA. il direttore della Storefront Gallery for Art and Architecture, New York, USA. dottorando presso il Centre for Research Architecture del Goldsmiths College a Londra, UK. contribuisce regolarmente a diverse riviste internazionali. I suoi progetti attuali includono una ricerca collettiva sull’outsourcing come forma di pratica spaziale, in mostra alla Biennale di Shenzhen 2007.