Panorama 10/01/2008, 10 gennaio 2008
Non ci fanno più credito. Panorama 10 gennaio 2008. Quando, a settembre, una grande banca del Nord rifiutò di rinnovargli un finanziamento di 2 milioni di euro, Ambrogio Invernizzi andò in crisi
Non ci fanno più credito. Panorama 10 gennaio 2008. Quando, a settembre, una grande banca del Nord rifiutò di rinnovargli un finanziamento di 2 milioni di euro, Ambrogio Invernizzi andò in crisi. Pensava di aver sbagliato qualcosa, che la sua azienda, la Inalpi (formaggi, burro, una ventina di milioni di fatturato), avesse qualche criticità a lui sconosciuta. «Poi ho capito che il problema non ero io, erano loro. Era la mia banca a essere in crisi di liquidità, non io. Così ho chiuso tutti i miei rapporti e ho emesso delle obbligazioni, sottoscritte dai soci, per 1,5 milioni». Una banca che non rifinanzia un mutuo può essere un caso. Ma in realtà il fenomeno è più diffuso: «Ho due finanziamenti» racconta l’imprenditore Massimo Calestrini, titolare della Shirò, marchio emergente del lusso italiano «e non solo il costo del denaro è aumentato rispetto all’anno scorso, ma, soprattutto da settembre in poi, le banche sono diventate attentissime a rinnovare i finanziamenti. Siamo in fortissima crescita e per aprire nuovi negozi in Oriente, invece di chiedere soldi alle banche, abbiamo coinvolto dei partner investitori». Un altro caso? «Due anni e mezzo fa ho ricomprato dal fondo Carlyle il 50 per cento della mia azienda» ricorda Ettore Riello «grazie all’appoggio delle banche. Oggi quella stessa operazione sarebbe impossibile». No, non può essere un caso se anche un grande imprenditore di successo come il presidente della Riello Group (circa 600 milioni di fatturato) riscontra un irrigidimento delle banche a fornire finanziamenti. Tecnicamente questo fenomeno si chiama «credit crunch» ed è planetario: dopo avere investito tutte le banche del mondo adesso tocca le imprese. Anche italiane, che ottengono credito bancario con sempre maggiore difficoltà e a un prezzo più alto. Almeno stando agli imprenditori. Perché se si interpella l’Abi la risposta è lapidaria: «Credit crunch? Quale credit crunch?». Gianfranco Torriero, capo dell’ufficio studi dell’associazione delle banche, snocciola il dato degli impieghi degli istituti di credito nell’ottobre 2007: «Più 14,8 per cento rispetto allo stesso mese del 2006 e a settembre gli impieghi erano stati il 12,7 per cento in più rispetto al settembre 2006». Quindi «quale credit crunch?». Eppure, se si parla di aziende, la musica è un’altra. «Da almeno 7 mesi» spiega Ettore Riello «è cambiata totalmente la sensibilità, il clima dei rapporti tra le banche e le imprese». Anche quelle grandi, ricche e famose. Il Wall Street Journal ha addirittura interpretato la decisione di Prada e Ferragamo di quotarsi in borsa come l’ammissione della difficoltà di ottenere credito per finanziare la crescita. «A essere colpite dal credit crunch sono soprattutto le imprese familiari» ha scritto il quotidiano in prima pagina. «Che le banche abbiano diminuito i finanziamenti alle imprese è una percezione» replica Torriero dell’Abi «ed è legata al fatto che negli anni precedenti c’è stata una sovrabbondanza di liquidità che le banche dovevano impiegare. Che poi il denaro costi di più è ovvio: nel 2005 il tasso di riferimento della Banca centrale europea era al 2 per cento, oggi è al 4». E le sofferenze? «In calo. A settembre 2007 il rapporto tra impieghi e crediti incagliati era pari all’1,18 per cento rispetto all’1,33 del 2006». «La crisi finanziaria c’è» ribadisce Riello «le banche sono più attente di prima a concedere credito a causa della crisi internazionale innescata dai subprime. Questa crisi sta creando più difficoltà all’economia reale dell’attacco alle Torri gemelle». E proprio per stabilizzare la crisi, dovuta da una parte alla crescita del costo del denaro e dall’altra a una scarsità di soldi, le banche centrali americana ed europea hanno prestato euro e dollari a prezzi di saldo agli istituti di credito cercando di raggiungere tre obiettivi: allentare la stretta creditizia; permettere alle banche di chiudere i bilanci del 2007 con un patrimonio migliore e abbassare il tasso Euribor, quello che viene preso a riferimento per stabilire il prezzo del denaro per il consumatore finale (per esempio per i mutui). L’ultimo intervento della Bce è stato di 348,6 miliardi di euro: il più grande finanziamento mai effettuato dall’istituto guidato da Jean-Claude Trichet. L’effetto sull’Euribor a 3 mesi c’è effettivamente stato: è passato dal 4,84 al 4,79 per cento, anche se solo un anno fa era un punto in meno (3,71). Ma è troppo poco per dire che la crisi di liquidità che stringe l’Europa sia stata risolta. Lo sa bene Giuseppe Mussari, capo del Monte dei Paschi di Siena, che sta chiedendo alle sue «colleghe» banche circa 3 miliardi di euro per comprare la banca Antonveneta. Voci di mercato sostengono che gli istituti di credito sono disposti a prestare soldi al Mps al tasso medio dello 0,9 per cento sopra l’Euribor. «Un anno fa» spiega Maurizio Panetti, responsabile del settore credito della società di consulenza Roland Berger, «le banche si prestavano soldi tra loro allo 0,20 per cento in più dell’Euribor». A soffrire di più della maggiore selettività delle banche nella concessione dei finanziamenti sono le piccole imprese che devono fare i conti anche con le regole dettate dalle autorità monetarie alle banche in tema di concessione dei crediti chiamate Basilea2. «Queste regole» spiega Paolo Costanzo dello Studio di consulenza aziendale di Milano «servono a determinare l’affidabilità delle imprese e hanno reso le banche più prudenti rispetto al passato». « vero e noi lo viviamo ogni giorno sulla nostra pelle» conferma Massimo Perini, presidente della Confidi delle province lombarde, società che garantisce verso le banche i prestiti agli associati. «Con Basilea2 le banche chiedono alle piccole e medie imprese di presentare, per esempio, il bilancio semestrale, che i piccoli imprenditori non hanno mai fatto. Se non lo presentano ottengono un grado di affidabilità basso e le banche non rinnovano un mutuo concesso magari solo un anno fa». C’è un motivo più nascosto che spiega in parte l’origine della crisi: si chiama Otd, acronimo che sta per «origination to distribution». il modello di business che ha dominato i piani strategici delle banche nazionali e internazionali negli ultimi anni e che si può riassumere così: non importa se il cliente è buono o cattivo, tanto i crediti che gli vengono concessi sono rivenduti, ovvero distribuiti, sul mercato finanziario ad altri investitori attraverso prodotti derivati e strumenti speculativi. «L’Otd ha avuto senza dubbio un ruolo» conferma Panetti della Roland Berger «ma esso è figlio dell’aumento dell’appetito per il rischio da parte delle imprese bancarie. E comunque sono convinto che non vivremo il 2008 sotto l’incubo del credit crunch» afferma Panetti «e che il fenomeno, pur grave, si assesterà». Una speranza basata sui dati, per esempio quelli dell’Abi. Anche se è difficile poter credere a un rapporto più virtuoso banca-impresa quando, anche nelle ultime convention, autorevoli banchieri parlavano ai propri venditori incitandoli a «estrarre valore» dai propri clienti industriali. MARCO COBIANCHI