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 2008  gennaio 10 Giovedì calendario

VARI ARTICOLI SCONTRO SFIORATO USA-IRAN


La Repubblica 8 gennaio 2008.
VANNA VANNUCCINI
Iran-Usa, prove di guerra in mare. Manovre azzardate, casse misteriose gettate a pochi metri dalle navi da guerra americane, minacce via radio di farle saltare in aria: la Guardie rivoluzionarie iraniane - i corpi di élite recentemente etichettati come terroristi dal Senato statunitense - hanno compiuto un´operazione provocatoria contro le navi della US Navy nel Golfo Persico alla vigilia della partenza del presidente Bush per un viaggio in Medio Oriente il cui scopo principale è intensificare la pressione contro l´Iran. Quasi impossibile immaginare cosa sarebbe potuto succedere se l´incidente, tra 5 vedette delle Guardie Rivoluzionarie e 3 navi americane, fosse uscito dai binari, ci fossero stati morti o feriti tra i soldati americani e quelli iraniani, che si guardano a distanza ravvicinata in una zona i cui confini marittimi sono controversi. stata questione di minuti e l´incidente è stato evitato. Ma da tempo gli esperti mettono in guardia che senza un negoziato sul modello di quelli condotti da Usa e Urss durante la guerra fredda, il rischio di un incidente nello Stretto - passaggio vitale dove ogni giorno transitano milioni di barili di petrolio e dove la presenza delle navi da guerra americane, di recente triplicata, è di per sé una provocazione per l´Iran - diventa ogni giorno più alto. Secondo fonti del Pentagono tutto è cominciato la mattina di domenica, verso le 5, mentre nello stretto di Hormuz passavano 3 navi da guerra Usa. Cinque vedette della marina dei pasdaran, alla quale è affidato il controllo delle acque territoriali, si sono avvicinate alle navi americane fino a 200 metri, distanza non insolita nello stretto che nel punto più stretto non supera i 55 km. Ma il comportamento dei pasdaran è stato tutt´altro che abituale. «Stiamo venendo contro di voi. Tra qualche minuto salterete in aria» avrebbero gridato via radio, riferisce la Cnn, mentre gettavano in mare cassette bianche dal contenuto sconosciuto. L´Incrociatore Uss Port Royal, il cacciatorprediniere Uss Hopper e la Fregata Uss Ingraham sono state costrette a fare una manovra di allontanamento e hanno posizionato i cannoni. I pasdaran hanno fatto dietro front quando già i soldati americani stavano per aprire il fuoco. « la provocazione più grave che ci sia stata finora» ha detto il Pentagono. «Non ci sono stati feriti, ma avrebbero potuto facilmente esserci». «Si tratta di un caso grave che ha bisogno di una spiegazione». Il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca hanno condannato l´incidente, giudicato «potenzialmente ostile», ammonito che Washington è pronta ad affrontare l´Iran se questi farà atti ostili contro gli Stati Uniti o i loro alleati nella regione e chiesto a Teheran di non ripetere simili provocazioni. Da parte iraniana invece si minimizza. «Sono incidenti che capitano» ha detto un portavoce del ministero degli Esteri: «la situazione si à risolta dopo che entrambe le parti si sono identificate». Le Guardie Rivoluzionarie hanno negato di aver compiuto atti di aggressione o provocazione contro le navi americane. In un secondo momento un portavoce dei pasdaran ha parlato di controlli. Resta da chiedersi come mai l´Iran abbia fatto questa provocazione. Nell´attuale linea prevalente a Teheran, che è quella di coinvolgere l´occidente in un negoziato (ed evitare ulteriori sanzioni) la provocazione dei pasdaran non ha senso. possibile che le Guardie Rivoluzionarie, o una parte di loro, siano interessate a silurare questa linea, che indebolisce Ahmadinejad. L´Aiea aveva sottolineato da tempo che fonti di stampa araba indicano che a Teheran cresce la pressione politica di coloro che erano intenzionati a bloccare lo stretto di Hormuz nel caso che l´Onu decidesse nuove sanzioni contro l´Iran. C´era da sperare che il recente rapporto dei servizi dell´intelligence americana, secondo cui Teheran non ha in corso un programma nucleare clandestino, potesse aprire la strada a un dialogo tra Usa e Iran. Ma ci sarebbe bisogno di una decisa azione diplomatica che per ora non c´è.


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La Repubblica 9 gennaio 2008.
GUIDO RAMPOLDI
LA STRATEGIA DELL´INCIDENTE. Gesticolazioni elettorali, forse. A marzo l´Iran voterà il nuovo parlamento e l´ala più ideologica del potere khomeinista, oggi candidata alla sconfitta, ha tutto l´interesse a rianimare il suo anemico elettorato con i sali del militarismo e del nazionalismo: cosa di meglio, dunque, di una rumorosa schermaglia con la flotta degli Stati Uniti?
Così non sarebbe sorprendente se fossero stati la Guida suprema Khamenei e il suo sodale, il presidente Ahmadinejad, a ordinare alla Marina iraniana di infastidire le navi del Grande satana che pattugliano lo stretto di Hormuz. Tanto più perché venerdì sbarca a Teheran l´inviato dell´Agenzia per l´energia atomica, El Baradei, ansioso di raggiungere un accordo definitivo con l´ala pragamatica del regime. Se fossero all´improvviso privati non solo del Nemico ma anche della Bomba, il misero Ahmadinejad e quel che rimane della sua fazione, i cosiddetti "neoconservatori", dovrebbero affrontare un elettorato che non sarà politicamente avveduto ma sa far di conto, e proprio non riesce a capire perché la somma di immense risorse di idrocarburi e prezzo del petrolio alle stelle sia un´economia asfittica e una disoccupazione in crescita.
Beninteso, un sospetto analogo potrebbe essere puntato contro una presidenza altrettanto fallimentare, quella statunitense. Come sostiene da tempo anche la parte intellettualmente onesta della destra americana (Pat Buchanan), se da qui alle presidenziali di novembre la situazione restasse immutata l´amministrazione Bush uscirebbe di scena con un bilancio da bancarotta: l´Iraq che non smette di sanguinare e rimane ostile ai suoi liberatori, l´Iran molto più influente di quanto non fosse otto anni prima, il consenso degli Stati Uniti nel mondo precipitato al minimo storico. Dunque una guerricciola aerea con l´Iran, per la durata di alcune settimane, potrebbe forse illudere l´elettorato americano e facilitare il commiato del presidente meno rimpianto che la storia recente degli Stati Uniti ricordi. Ma ammesso che questo finale pirotecnico sia nei calcoli di Bush e di Cheney, come per la verità non solo a Teheran si sospetta, una parte dell´amministrazione americana vi si è opposta con efficacia. Il Dipartimento di Stato, l´ottimo ministero della Difesa Gates, pezzi dell´establishment militare e dei servizi segreti statunitensi (da cui Gates proviene): lo schieramento degli scettici è troppo vasto e deciso perché il partito della guerra possa realizzare il suo piano (presunto) alla luce del sole. Però un crescendo di "incidenti" potrebbe indebolire le resistenze interne all´amministrazione e restituire a Bush il ruolo che predilige, il war-president, il presidente "di guerra". Allo stato questa non ci pare una spiegazione convincente, ma certo sarebbe sciocco dimenticare che la storia del Novecento pullula di "incidenti" costruiti ad arte, dall´invasione della Polonia al coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nel conflitto vietnamita.
Non meno numerosi probabilmente furono i conflitti (per esempio la Prima guerra mondiale) scoppiati senza una precisa volontà, per imperizia delle parti, per la forza inerziale delle costruzioni retoriche su cui ciascun governo fondava la propria legittimazione, e perché, declinando un vecchio ordine, nessuno sapeva più come riparare ad un errore fatale. Tanto più consola constatare che l´incidente di ieri non ha avuto un seguito. Ma non ci fideremmo troppo. La natura caotica del regime iraniano, con un vertice confuso e una dozzina di centri di potere talvolta in conflitto, si rispecchia nella natura caotica degli apparati militari. Se ne è avuto prova anche di recente, quando due comandi regionali dei Pasdaran hanno condotto ciascuno una propria politica nel limitrofo Iraq. In altre parole, è improbabile, ma non si può escludere, che ieri un comandante iraniano ci abbia messo del suo e si sia fatto trascinare dalla propria esuberanza ideologica. C´è da sperare che non sia così, sarebbe deprimente scoprire che la pace può dipendere dall´umore di un capitano di fregata. L´unica cosa su cui tutti potrebbero convenire è che la possibilità di una guerra, e perfino di una grande guerra dal Mediterraneo all´Afghanistan, non è ancora uscita dal nostro orizzonte. Faremmo bene a ricordarlo, non foss´altro per misurare con quell´eventualità la serietà delle italiche batracomachie.


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IL SOLE 24 ORE 08/01/2008
Ugo Tramballi
Scontro sfiorato tra Usa e Iran. GERUSALEMME. «Fra due minuti vi faremo saltare in aria». Non sono cose da dire a tre navi da guerra americane, alla vigilia del viaggio di George Bush in Medio Oriente. Ma è il messaggio che nella notte fra sabato e domenica ha ricevuto il comandante della piccola squadra navale Usa che incrociava dalle parti dello stretto di Hormuz: 30 chilometri fra i più strategici nei mari del mondo. Quando una delle navi ha preparato i pezzi per sparare e difendersi, le cinque imbarcazioni iraniane se ne sono andate.
Le barche veloci dei pasdaran, le guardie iraniane della rivoluzione, si erano avvicinate altre volte in passato. Mai avevano compiuto quello che per il Dipartimento di Stato è «una provocazione sprezzante e potenzialmente ostile» in acque internazionali. L’Iran, da parte sua, ha minimizzato, parlando di controlli di routine: « stato un incidente simile a quanto successo già altre volte ed è una questione ordinaria e naturale», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri, Mohammad Ali Hosseini, spiegando che tutto si è risolto dopo che le imbarcazioni si sono reciprocamente identificate. Alla notizia dell’incidente sfiorato il prezzo del barile di petrolio è brevemente salito, per poi scendere di nuovo quando, dopo la protesta diplomatica, le cose sono tornate alla loro tesa normalità: perché è sempre nel Golfo che potrebbe scoppiare il peggiore dei nuovi conflitti mediorientali.
L’incidente a Hormuz, da dove passa la gran parte del petrolio che alimenta le economie occidentali, indiane e cinesi, è in qualche modo la metafora della visita di George Bush nella regione. Il presidente passerà tre giorni su sei a Gerusalemme a occuparsi di israeliani, palestinesi e della sua anima: andrà anche a pregare a Cafarnao, in Galilea. Ma sarà la parte conclusiva del viaggio in Arabia Saudita, Emirati (l’unico Paese al mondo con il Pakistan che intratteneva rapporti diplomatici con il regime dei talebani in Afghanistan), Bahrein, Kuwait, Egitto e forse Baghdad, quella più importante. La Casa Bianca vuole convincere il Congresso ad approvare una vendita di armi per 20 miliardi di dollari ai sauditi e agli altri alleati arabi.
La questione israelo-palestinese è ormai sussidiaria a quella iraniana, del Golfo e del suo petrolio. La sua soluzione non porterebbe miracolosamente la pace nel resto della regione ma farebbe crescere la credibilità americana nel mondo arabo, pensando al confronto con l’Iran.
Riguardo alla deliberata provocazione a Hormuz, il Dipartimento di Stato aveva anche detto che gli Usa sono «pronti a contrastare i comportamenti ostili» iraniani e a «difendere anche i loro alleati nella regione». su questo che l’amministrazione americana riscuote i consensi degli arabi, non sul suo ruolo di mediatore nella questione palestinese, storicamente squilibrato a favore d’Israele.
A parte le eventuali conseguenze dell’incidente di Hormuz, da tempo l’amministrazione Bush mostra il suo volto pacifico e negoziale con l’Iran: non più la minaccia di una guerra ma l’obbligo di trattare, sia pure dall’alto di una forza armata, come unica via per impedire che Teheran acquisisca l’arma nucleare. Bush lo ha ripetuto in tutte le interviste di questi giorni, in previsione del suo viaggio. quello che vogliono sentire gli alleati arabi, che già hanno incominciato a utilizzare gli aspetti positivi della politica americana. Il mese scorso il Qatar aveva invitato Ahmadinejad al vertice dei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo; il re saudita aveva invitato il presidente iraniano al pellegrinaggio alla Mecca e a Medina; Hosni Mubarak aveva avviato una trattativa per ristabilire i rapporti diplomatici fra Egitto e Iran.
Nessuna area del mondo definirà la lunga presidenza di George Bush quanto il Medio Oriente nella sua accezione allargata: Turchia, Iran, Afghanistan e Pakistan compresi. Tuttavia è dal 2003 che non vi mette piede. A Gerusalemme era venuto solo nel 1998, ma da governatore del Texas. Un presidente non ha gli obblighi del suo segretario di Stato: può impegnare la sua amministrazione in un luogo del mondo senza l’obbligo di visitarlo costantemente. Ma c’è una dicotomia fra quanto poco George Bush vi è stato e quanto invece abbia messo in gioco le risorse politiche, militari e morali americane.
Il bilancio è drammatico e in qualche caso tragico. Per un dittatore esautorato e impiccato in Iraq, in questi anni ci sono stati migliaia di morti, una proliferazione di attentati terroristici dall’Algeria, alla Turchia, al Pakistan; c’è stata una guerra fra Israele e Hezbollah e c’è l’instabilità permanente del Libano. La Siria ancora è indecisa se passare dalla nostra parte o se non le sia più conveniente restare con l’Iran. Fra israeliani e palestinesi non è accaduto quasi nulla di pacifico. E non ci sono stati segni consistenti di promozione della democrazia nella regione: i pochi passi fatti nei regni ed emirati del Golfo sono un prodotto indigeno.
Ovviamente non sono gli americani i soli responsabili di questo deludente panorama. Ma si pensava che un’amministrazione direttamente impegnata in due guerre, Afghanistan e Iraq, che aveva incominciato con una crociata per la democrazia in Medio Oriente, al suo crepuscolo presentasse un bilancio diverso. Nessun presidente ha usato così tanto la potenza globale americana per avere così poco in cambio. Molta parte del futuro americano e del mandato del prossimo presidente sono già impegnati a occuparsi dell’eredità che Bush alla fine avrà lasciato.
La settimana scorsa, dopo le primarie in Iowa, gli americani non si interessavano tanto dell’imminente viaggio mediorientale del presidente uscente quanto di Barak Obama e Mike Huckabee; delle promesse del 2009 e degli anni seguenti. Ma «ciò che è stato largamente dimenticato», ricordava il columnist del New York Times, Frank Rich, «erano i due elefanti più grandi rimasti nella stanza: l’Iraq e George Bush».