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 2008  gennaio 09 Mercoledì calendario

Le mie cento prigioni. La Stampa 9 Gennaio 2008. BRUXELLES. Jan De Cock non ha mai commesso un crimine eppure ha passato quasi due anni in prigione

Le mie cento prigioni. La Stampa 9 Gennaio 2008. BRUXELLES. Jan De Cock non ha mai commesso un crimine eppure ha passato quasi due anni in prigione. Anzi, in 135 prigioni, e sempre su sua richiesta. Lo fa per vocazione, vuole vedere il mondo da dietro le sbarre e denunciare l’effetto che fa. E’ convinto che la qualità di un penitenziario sia lo specchio della democrazia. Ha cominciato per caso, dopo un’esperienza umanitaria in un penitenziario cileno. «Mi sono chiesto come potesse essere credibile il mio impegno se non fosse stato a tempo pieno». Così, rientrato in Belgio, ha presentato una formale domanda di incarcerazione. Gli hanno risposto che doveva violare la legge, «almeno rubare un pollo». «Quanto mi date se lo faccio?», ha domandato il fiammingo. «Non più di cinque anni», gli hanno detto. Ha insistito. Alla fine ha convinto il giudice che qualche notte al gabbio non avrebbe nuociuto né al sistema, né a quello strano tipo dalla fedina immacolata. Attenti al capo-banda Col tempo è diventato un lavoro. Classe 1964, De Cock oggi si divide fra la carriera di detenuto volontario part-time, quella di scrittore, una fondazione per i diritti dei reclusi e un lavoro in un ospedale di Anversa. Nel frattempo ha pubblicato due libri incredibili, «Hotel Prison» e «De kelders van Congo» (Le grotte del Congo), memorie del cielo a scacchi in cinque continenti, un viaggio nell’inferno delle galere e un appello doloroso perché l’umanità non venga calpestata ogni volta che si serra un chiavistello. E’ un dramma che Jan racconta senza calcare la mano. Osserva e annota. «Sa una cosa?», sorride, «Una delle lezioni che ho imparato è che incutono più paura i carcerieri dei detenuti». Se l’è fatte tutte, da Sydney a Ouagadougou, da Bangkok a Cuba. Gli manca l’Italia, però è presto spiegato: «Per andare dentro cerco di parlare la lingua del posto, la vostra non la so e mi dicono che l’inglese o il francese non bastano». Presto o tardi, promette, proverà l’Ucciardone o Le Vallette. In genere si fa aiutare da ex detenuti o secondini con qualche amicizia giusta. Adesso che i suoi volumi sono in libreria il gioco s’è fatto più facile, accettano di sbatterlo in gattabuia senza eccessivi problemi. Non gli americani, che non hanno mai risposto a un autoinvito per Guantanamo. Né i cinesi: «A Pechino ho dovuto farmi arrestare davvero», ricorda. «In piazza Tienammen ho offerto ai soldati un mazzo di fiori con un biglietto che diceva ”pace e libertà”. stato sufficiente perché mi portassero via di peso». I ricordi di De Cock descrivono gli Abissi. «Ci sono molte prigioni terribili nel mondo», rivela. «Me ne viene in mente una di Haiti, in cui eravamo 18 in una cella da 18 metri quadri. Mai un’ora d’aria, tutti sempre nello stesso punto, alcuni da otto anni. Nessun orpello, solo un secchio per i bisogni. Le donne erano fortunate: potevano uscire dalla cella, una volta al giorno, per vuotare il secchio degli uomini!». In Giappone, continua, il sistema è orrendo. «Ai detenuti non è permesso parlare, né guardare i secondini negli occhi: se lo fai sei punito con l’isolamento». A Dubai è persino peggio. «Stavo tra quella gente senza dita e mani, lì se un pollo non lo paghi ti tagliano qualcosa. La guardia mi spiegava che li avevano formati in Arabia Saudita. Uno dei corsi era finalizzato all’insegnamento di come amputare gli arti, con la cura di assicurarsi che dopo l’operazione i moncherini fossero immersi in uno speciale olio bollente per cauterizzare le vene». Paura? «Certo», esclama il belga, che ha sempre chiesto di essere trattato come uno qualunque. «A Kigali un pazzo mi ha attaccato, voleva uccidermi». Nelle circostanze peggiori, confessa, ti protegge la solidarietà e l’umanità dei compagni, «anche se è buona regola non offendere i capi banda». Vale ovunque. Anche nei paesi civilizzati come gli States. «Lì sono paranoici. Mi hanno richiuso a San Quintino e Rikers Island. Dopo l’11 settembre non facevano entrare nemmeno gli spazzolini da denti o le riviste pinzate. I controlli erano maniacali». Il risultato è che se il biondo De Cock dovesse scegliere tra una prigione pulita del Texas o una disastrosa africana dovrebbe pensarci su. «In Congo sei in cella con 20-30 persone e se non c’è cibo si condivide il poco che resta. In America devi stare sempre da solo ed esci di testa». Fortuna che ci sono i carceri a cinque stelle. In Norvegia, ad esempio, dove «i prigionieri di Bastoey sono su un’isola, abitano case che condividono con 7-8 altri, lavorano: tutto ruota intorno al reciproco rispetto». L’impegno ha sortito qualche risultato. La fondazione avviata dal fiammingo ha trovato i fondi per rifare da zero una prigione del North Kivu, in Congo. Se gli chiedi perché continua lui racconta che «quello che mi ha colpito di più nella privazione di libertà è l’estrema solitudine che si inietta nelle persone: ho incontrato una donna anziana a Lima, in Perù, l’avevano rilasciata dopo aver scontato 27 anni; tre giorni più tardi, era li che implorava di essere ripresa perché non aveva più nessuno, era completamente abbandonata. E’ giusto pagare per i delitti, ma il prezzo non può essere infinito». Ciò non toglie che c’è chi vuole evadere. Lei c’ha mai pensato? «Non proprio, forse non sono mai stato dentro abbastanza a lungo. E poi, a dir la verità, per me l’ostacolo è sempre entrare, non uscire». MARCO ZATTERIN