Libero 08/01/2008, FRANCESCO BORGONOVO, 8 gennaio 2008
WALTER SITI
Libero 8 gennaio 2008. «Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa». Mi immaginavo, sollevando la cornetta, di sentire questa frase. Pensavo che Walter Siti rispondesse così, con l’incipit di "Trop pi paradisi" - uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi anni registrato su una segreteria telefonica. Sarebbe stato perfetto: parlare di celebrità e di "famosi tà" - cioè dell’essere famosi senza meriti particolari, dell’essere famosi perché si è famosi - con un nome senza volto. Uno scrittore che nei propri libri cita personaggi televisivi, vip, partecipanti al Grande fratello, vallette e veline, banchettando con la notorietà regalata dal tubo catodico, ma in realtà è un perfetto sconosciuto. Uno che - per sua stessa ammissione - «non ha una faccia» e manca totalmente «del fisico adatto per comparire in un programma tv». Non ha risposto così, ovviamente. Però è rimasto una voce priva di viso. Non ha smania di apparire, anzi l’ho pure disturbato: si è imposto un ritmo di lavoro serrato per portare a termine il suo nuovo romanzo. Setteore-sette di scrittura al giorno per arrivare alla fine di un libro ambientato nelle borgate romane che uscirà per Mondadori. La conversazione che ne è seguita, in realtà, è niente più della dilatazione di quell’incipit. La spiegazione del perché siamo individui diversi che bramano la fama e la distinzione, i quali però si trovano banalmente appiattiti su un unico livello di esistenza, di ordinario anonimato. "Troppi paradisi" assomigliava, nella ripetuta citazione di gente nota, ai romanzi di Bret Easton Ellis, in particolare "Glamorama", una festa continua, un perenne elenco di attori, star e starlette. I personaggi inventati si mescolavano a quelli esistenti. «Io utilizzo i "famosi" nei miei libri per ottenere un effetto di realtà. Le celebrità - come quelle che compaiono sul canale "Entertain ment" di Sky, alle quali non viene mai chiesto che cosa sappiano fare, basta che abbiano avuto mezzora di passerella in video mi aiutano a riprodurre la mancanza di distinzione tra persona e personaggio, che esiste anche nella vita». Ma andiamo per gradi. Che cosa significa, secondo Siti, essere "famoso"? «La definizione varia a seconda dei periodi. Il senso per cui, anticamente, si considerava famosa una persona -perché aveva fatto cose importanti, capaci di restare nella storia - è passato in sottofondo. Famoso è chi ha visibilità sui mezzi di comunicazione. Tutti si riempiono la bocca con la "so cietà dello spettacolo", ma ho la sensazione che non tiriamo fino in fondo le conseguenze della definizione: lo spettacolo è una forma d’arte e se viviamo in uno spettacolo vuol dire che le regole dell’opera d’arte valgono anche per la vita».
Star immaginarie
Secondo Siti, due conseguenze fondamentali derivano dal vivere in una "società dello spettacolo". «Intanto, la sospensione dell’incredulità. Non ci chiediamo più se una cosa è vera o falsa, ma se funziona o no. Per esempio, quando vediamo un politico che va in televisione non ci domandiamo se è vero o no quello che dice, ma se è un personaggio o meno. La seconda regola è che la distinzione fra bene e male viene annullata: rimane la differenza fra personaggi forti o deboli». In sostanza, il meccanismo televisivo della creazione di personaggi si ripercuote nella vita quotidiana: tutti cercano di crearsi un personaggio, più o meno riuscito, indipendentemente da categorie morali. Ciascuno, insomma, cerca di distinguersi e diventare "famoso", ma finisce per essere più uguale e indistinto di prima. Queste osservazioni, in qualche modo, entreranno anche nel nuovo libro di Siti, dedicato alle periferie romane. Lui, curatore delle opere di Pasolini, si era allontanato dai ragazzetti umili del maestro per esaminare il mondo degli escort strapagati e strapompati: ragazzi muscolosi, bodybuilders che fanno i prostituti d’alto bordo (come ne "La magnifica merce", Einaudi). Ora ritorna sul luogo del delitto, lì dove Pier Paolo aveva lasciato. «A dire il vero» spiega «stiamo parlando di un unico percorso. La trasformazione di cui parlavo prima è accaduta dappertutto, anche nelle borgate. Nessuno dei "ragazzi di vita" di Pasolini avrebbe mai pensato di modificare il proprio corpo per meglio vendersi sul mercato. Erano com’erano. Adesso si costruiscono per il mercato: si truccano, fanno iniezioni, tutto per rendersi appetibili. Si ha la sensazione di vivere in un mercato universale e chi non pensa di poter diventare personaggio, cerca di entrare come pezzo della scenografia, di funzionare come oggetto decorativo». Il filo rosso che collega Siti a Pasolini si ritrova anche in altri aspetti della sua ricerca letteraria. «Nei miei ultimi libri ho cercato di inocularmi tutti i virus della post modernità», dice. Il risultato è che le previsioni che fece Pasolini sono state rovesciate. «Sosteneva che i ragazzi delle borgate si stessero imborghesendo. Invece è la piccola borghesia che si è appiattita sulle borgate. Ciò che prima caratterizzava il sottoproletariato - la sensazione che non ci fosse un futuro, il vivere con un piede nella legalità e uno fuori, la percezione che nulla ha senso, il volere tutto e subito e il sognare a vuoto, sono diventati prerogativa della borghesia». Se per Pasolini i ragazzi di borgata erano il popolino belliano che ammirava il Papa passare in carrozza, ora è la gente comune (li chiamiamo "italiani medi"?) a essere confinata in tribuna. Anzi in platea, a spiare l’esistenza di chi appare in televisione. «Mi ha impressionato la biografia di Fabrizio Corona» racconta «che è un borghese a tutti gli effetti; in prigione incontra un signore che gli dice: "se hai soldi, una bella macchina e un po’ di cocaina puoi scopare chiunque" e Corona risponde: "sono d’accordo". Qualunque borgataro controfirmerebbe. Chi detta l’egemonia culturale, sia pure dal basso, è la borgata». L’idea è che tutti siano costretti a rendersi "pop", a calarsi fino al collo nel pastrocchio postmoderno. Il quale ha per pilastro il miscuglio di alto e basso, l’an nullamento delle gerarchie e la distruzione della dicotomia buono/cattivo. La vita è come la televisione. Il vero è falso e viceversa: quel che importa è esistere come personaggi. Come "famo si".
Superare la tivù
Esseri che si credono unici ma vestono tutti uguali, comprano gli stessi prodotti, acquistano cose "preziose" a prezzi da fame. Si è avverata la previsione di Lautréamont e delle avanguardie: un giorno, la poesia la faranno tutti; l’arte la faranno tutti. Solo che è arte deprivata della forma. Quel che risulta, dice Siti, è che «non si tratta di una rivoluzione, ma di una poltiglia». La televisione ha sostenuto questo meccanismo, ma ormai per Siti - è superata. Sul web, per esempio YouTube, il discorso è estremo: «Guardandolo, sembra che la televisione generalista che conosciamo sia qualcosa di transitorio. In rete la poltiglia indistinta è ancora più forte. Se noi passiamo da lì a Sky, si ha l’im - pressione che tutto sia possibile, che qualunque livello possa essere mescolato». Il risultato ultimo, sembra di capire, è che la fama diventa unico criterio di identità. E in qualche modo, grazie alle tecnologie ormai democratizzate, un piccolo ruolo non si nega a nessuno. Tanto le decisioni vengono prese altrove. Tranne nuclei minoritari di resistenza, prevale la logica del desiderio impotente. Siamo tutti star immaginarie. Siamo tutti borgatari.
FRANCESCO BORGONOVO