TuttoScienze La Stampa 09/01/2008, MONICA MAZZOTTO, 9 gennaio 2008
Le piante che parlano tra loro
”Ho visto le piante intelligenti”. TuttoScienze La Stampa 9 Gennaio 2008. Comunicano tra loro, riconoscono i parenti e minacciano gli intrusi, trovano soluzioni ai problemi e fanno tesoro delle soluzioni, analizzano dati e prendono decisioni. In poche parole, sono in grado di manifestare comportamenti intelligenti. Stiamo parlando di alberi e piante. Per indagare questo campo, Stefano Mancuso, professore della Facoltà di Agraria dell’Università di Firenze, ha fondato il primo Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale. Professore, la sua ricerca ha scoperto quello che è stato definito l’analogo del cervello nelle piante. Di che cosa si tratta? «Non parlerei di cervello. Le piante, invece, possiedono nelle radici, nella punta in particolare, una zona di alcuni millimetri con cellule dalle caratteristiche particolari. Queste sono in grado di sentire ciò che accade vicino a loro molto più efficacemente rispetto a tutte le altre cellule: decidono qual è la direzione che deve prendere la radice per il benessere della pianta e la guidano». Questo basta a definire una pianta come «intelligente»? «Fino a pochi anni fa anche negli animali era tabù parlare di intelligenza, ma oggi non è più così. Penso che l’intelligenza sia una proprietà biologica, una proprietà della vita stessa. Non è possibile che esistano organismi che non siano ”intelligenti”». Ma non è eccessivo parlare di neurobiologia avendo a che fare con vegetali? «Per parlare di neurobiologia non è necessario che ci sia un sistema nervoso o un cervello. Le piante utilizzano per la comunicazione veloce tra le cellule dei potenziali di azione che sono gli stessi utilizzati dai nostri neuroni. Inoltre nelle piante si ritrova il 95% dei neurotrasmettitori degli animali». Lei sostiene che i vegetali siano anche in grado di apprendere e memorizzare. In che senso? «Ricordano la risoluzione di un problema. Immagini una radice, che deve cercare una fonte di nutriente, come potrebbe essere un sale azotato, l’equivalente del formaggio per i topi. Immagini che tra la fonte e la radice ci sia una barriera. La prima volta che la pianta si trova in questa situazione impiega un certo tempo per capire dov’è la fonte e circumnavigare l’ostacolo. Ma, se alla pianta viene posto lo stesso problema in momenti successivi, il tempo impiegato nel risolvere ”il problema” diminuisce con l’aumentare delle prove. Questo è possibile solo dopo un apprendimento, alla cui base deve esserci una memorizzazione». Tra le incredibili doti delle piante lei inserisce l’autoriconoscimento: come si capisce se hanno una rappresentazione di se stesse? «Prendiamo un albero che muove i rami per raggiungere la luce. Se si mette una pianta vicina a un’altra, si scatena la ”sindrome da fuga dall’ombra”. Ma in un albero ci sono molte zone che sono ombreggiate da se stesso. E come mai non ”scappa” dalla propria ombra? La risposta è che sa quando l’ombra viene da se stessa e quando viene da un’altra pianta». Lei ha scritto il saggio «Comunication in Plants»: che ruolo ha la comunicazione nel regno vegetale? «Molto importante. Le piante di pomodoro comunicano con quelle della propria specie anche a chilometri di distanza. I messaggi sono sostanze chimiche e i contenuti sono, per esempio, ”attenzione, attacco d’insetti”. Ma si può trattare anche di dati sugli stati nutrizionali del terreno: ”Da questa parte c’è acqua!”». Sembrano prove di altruismo. E’ così? «Se i vicini non sono simili, i comportamenti sono meno benevoli. Le piante sono territoriali e, non potendo spostarsi, difendono la loro area vitale con i denti. Quando una pianta entra con le radici nello spazio vitale della pianta di un’altra specie, vengono emessi segnali di avvertimento. Se vengono ignorati, allora si scatena una guerra chimica, con emissione di sostanze mortali per le radici». Ora studiate anche il sonno: è vero? «Sì. Uno studio su cui puntiamo vuole dimostrare che le piante dormono. Tante mostrano la presenza di un ciclo: per esempio la mimosa di notte chiude le foglie, ma per avere la prova che un organismo dorme è necessario raccogliere una serie di requisiti lunga e complessa». Perché questa ricerca vi interessa tanto? «Le funzioni del sonno sono ancora un’incognita: si sa che nell’uomo, per esempio, è un processo legato alla memoria, alla coscienza e alla non coscienza. Se dimostrassimno che le piante dormono, avremmo un modello straordinariamente semplice su cui studiare questi meccanismi, anche nell’essere umano». Nel suo laboratorio lei si occupa di robot: ispirati alle piante, dovrebbero esplorare Marte. Che cosa hanno in più rispetto a quelli già utilizzati? «Sviluppiamo il ”Plantoide” - così si chiama il nostro robot - con il Sant’Anna di Pisa e per conto dell’Agenzia Spaziale Europea. Finora sono state costruite molte macchine che imitano gli animali, ma mai una che imitasse una pianta. E invece le piante sono più dotate proprio nell’esplorazione e nella colonizzazione dei terreni sterili. Il progetto prevede l’invio su Marte di migliaia di semi artificiali: si dovrebbero aprire, emettendo radici meccaniche che andranno nel sottosuolo e percepiranno molti parametri chimici e fisici. Poi una ”pianta madre” raccoglierà i dati e una volta al giorno li invierà a Terra». Quali saranno i vantaggi? «Si coprirebbero zone molto ampie: potremmo esplorare decine e centinaia di chilometri. Inoltre avremmo un consumo energetico bassissimo. I plantoidi trarrebbero l’energia solare da foglie artificiali». Il «plantoide» è il mini-robot ispirato alle piante progettato all’ILNV (International Laboratory of Plant Neurobiology) presso l’Università di Firenze. Migliaia di esemplari potranno essere inviati su Marte per esplorarne le caratteristiche: le loro radici meccaniche si infileranno nel sottosuolo e saranno in grado di percepire e analizzare moltissimi parametri chimici e fisici. MONICA MAZZOTTO