La Stampa 09/01/2008, MARCO BELPOLITI, 9 gennaio 2008
Pattume, il nostro specchio. La Stampa 9 Gennaio 2008. L’uomo e il bambino attraversano un paese devastato: intorno a loro masse di rifiuti, segni di incendi, detriti, macerie
Pattume, il nostro specchio. La Stampa 9 Gennaio 2008. L’uomo e il bambino attraversano un paese devastato: intorno a loro masse di rifiuti, segni di incendi, detriti, macerie. Un paesaggio post-catastrofe. Spingono, forse non a caso, un carrello del supermercato, dove hanno stipato le loro poche cose: coperte, derrate alimentari, oggetti utili. Il paesaggio che Cormac McCarthy descrive ne La strada (Einaudi), il suo ultimo romanzo, è coperto degli avanzi della società industriale collassata: lattine vuote, bottiglie di vetro, stracci, mobili abbandonati, cumuli di pattume. Nella letteratura americana l’immagine della discarica, dell’accumulo di rifiuti, non è rara. Anzi, al contrario, è consueta. A partire dagli anni Sessanta, culmine della American way of life, le deiezioni della società industriali sono apparse agli scrittori di quel paese l’esatto rovescio del consumo, la parte caduca, morta dell’immenso magazzino delle merci offerto a profusione da negozi, supermercati, centri commerciali. Richard Brautigan, scrittore beat, nel libro chiave della fine degli anni Sessanta, Pesca alla trota in America (1967) descrive un «Deposito demolizioni di Cleveland» in cui, rovesciando il sogno edenico della natura incontaminata di Thoreau, è possibile acquistare un ruscello da trote di seconda mano, scarto di un paesaggio che annega nel pattume. I dropout di Brautigan sono essi stessi dei rifiuti, delle deiezioni del Grande Paese, non solo perché vivono in mezzo alla spazzatura, ma perché producono opere, romanzi, racconti, destinati allo scarto. Ma il libro che celebra l’epopea dei rifiuti è senza dubbio Underworld (1997) di DeLillo. Il protagonista, Nick Shay, manager, si occupa infatti di smaltimento di rifiuti. A partire dai suoi ricordi, garbage che galleggiano sulla superficie della memoria, Shay ha compreso che la spazzatura rappresenta l’ultima frontiera dell’autonomia umana, l’ostacolo contro cui cozza la nostra idea di essere noi gli autori della nostra stessa biografia. Underworld, uno dei più potenti romanzi degli ultimi decenni, è un’inclemente analisi dell’America; il suo protagonista e la moglie, Maria, ossessionati dal pattume, vedono tutto in termini di futura spazzatura. Gli scrittori europei, al confronto appaiono meno catastrofici, più disposti a leggere il rovescio del consumo in termini di un equilibrio che possiamo definire «cosmico». Michel Tournier, in uno dei più bei romanzi francesi, Le meteore (1975 edito da Garzanti), ci presenta la figura di Alexander Surin, dandy del pattume, gestore di una discarica, omosessuale ed estensore di una «estetica del pattume». In un passaggio di questo scritto Alexander spiega che il pattume non è il nulla in cui viene inghiottito l’oggetto scartato, bensì «il conservatorio dove esso trova posto dopo aver attraversato con successo mille prove. Il consumo è un processo selettivo destinato a isolare la parte indistruttibile e veramente nuova della produzione». Il libro che ha ispirato Tournier è probabilmente il penultimo romanzo pubblicato da Dickens, Il nostro comune amico (1864-65), al cui centro c’è l’eredità lasciata dal defunto re del pattume. Il racconto dello scrittore inglese è giocato tutto sulla coppia lusso/immondizia, e Tournier sviluppa questa idea mettendo bene in luce l’ossessione delle società occidentali, il suo terrore: sprecare. Il sogno del capitalismo è quello del «consumo eterno», oggetti che durano per sempre, in netto contrasto con la struttura stessa della sua economia, per cui le cose sono prodotte per usurarsi, rompersi, essere sostituite. Tournier parla del «sogno della costipazione urbana integrale» come di sogno decisamente schizofrenico. Italo Calvino, che ha inserito nel suo capolavoro, Le città invisibili (1972), alcune città della deiezione, dello scarto e del rifiuto, in un bellissimo racconto, apparso inizialmente in rivista (La poubelle agréée, 1977, ora in La strada di san Giovanni), propone una diversa lettura del pattume. La poubelle è la pattumiera che Calvino, in quanto unico maschio della casa di Parigi dove abita con moglie e figlioletta, deve curare giornalmente. Si tratta dell’ultimo anello della catena del consumo casalingo: prepara la pattumiera foderandola di giornali e, quando è colma, scendere le scale e svuotarla. Racconto di antropologia quotidiana, La poubelle ci fa capire il possibile rapporto che possiamo intrattenere con i rifiuti. Svuotare la pattumiera è a detta dello scrittore un rito di purificazione, metafora di una condizione esistenziale più ampia: «soltanto buttando via posso assicurarmi che qualcosa di me non è ancora stato buttato e forse non è né sarà da buttare». Ovvero: occorre separarsi dalla propria spoglia o crisalide o limone spremuto del vivere, affinché, aggiunge, ne resti la sostanza, e «domani possa identificarmi per completo (senza residui) in ciò che sono e che ho». Una morale stoica, da antico ragazzo ligure, che sembra contrastare con quella contemporanea in cui lo scarto, lo spreco, il rifiuto è soltanto la parte negativa dell’esistenza che ci perseguita, come nei cumuli di scorie per le vie di Napoli, che ci tallona da vicino, sino a farci credere che noi stessi, come i personaggi del racconto di McCarthy, siamo una deiezione, un rifiuto, uno scarto. I rifiuti sono diventati il nostro specchio, e non più, come in Tournier e in Calvino, l’altra faccia della medaglia, il rovescio necessario e indispensabile, del positivo, della vita stessa: il mondo ctonio, regno di Plutone, con cui venire a patti, senza farci mai divorare. MARCO BELPOLITI