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 2008  gennaio 08 Martedì calendario

Dinastie. QUEI RAGAZZI AMERICANI CHIUSI TRA BUSH E CLINTON. La Repubblica 8 gennaio 2008. «Le dinastie in politica sono figlie della nostalgia per il passato, della immediata riconoscibilità di un nome e di un volto, di una rete di rapporti già pronta e della maggiore facilità a raccogliere soldi»

Dinastie. QUEI RAGAZZI AMERICANI CHIUSI TRA BUSH E CLINTON. La Repubblica 8 gennaio 2008. «Le dinastie in politica sono figlie della nostalgia per il passato, della immediata riconoscibilità di un nome e di un volto, di una rete di rapporti già pronta e della maggiore facilità a raccogliere soldi». Evan Cornog insegna Storia della Rivoluzione Americana a Columbia University e dirige la rivista della scuola di giornalismo, ha una grande passione per la politica, nata quando faceva il portavoce del sindaco di New York Ed Koch, che lo ha portato a scrivere due volumi sulla storia delle elezioni presidenziali americane. «Oggi - sottolinea - l´ipotesi di un ritorno dei Clinton alla Casa Bianca è qualcosa che inquieta, soprattutto visto con gli occhi dei miei giovani studenti». Che cosa dicono i suoi studenti? «Quest´autunno, all´inizio del corso sulla rivoluzione americana, mentre stavamo discutendo del pamphlet Common Sense che Tom Paine scrisse nel gennaio del 1776 alla vigilia della Rivoluzione, nella mia classe è scoppiata una discussione sulle elezioni presidenziali». Che cosa l´ha scatenata? «Common Sense è un testo che ebbe un´importanza fondamentale nel cambiare il punto di vista degli americani nei confronti della monarchia. Fino ad allora tra la gente, anche tra chi guidava la protesta, c´era un grande rispetto per il re, poi arrivò Paine e cominciò a prenderlo in giro. Improvvisamente venne messa in discussione l´idea della monarchia e delle dinastie e questo provocò molto dibattito e molte preoccupazioni sulla nozione di leadership, su quali fossero i suoi caratteri fondanti. Emerse che la leadership post monarchica doveva distinguersi per essere indipendente e per non favorire nessuno, questo segnò i primi cinquant´anni della democrazia americana che fu ideologicamente profondamente scettica sulla possibilità che si creassero dinastie politiche. Eravamo a questo punto del corso, quando uno degli studenti mi ha detto: "Ma noi non abbiamo mai visto nella nostra vita un presidente che non si chiamasse Bush o Clinton, dov´è finito lo scetticismo verso le dinastie?"». E lei come ha reagito? «Mi sono reso conto che nella vita di un ventenne di oggi ci sono stati alla Casa Bianca solo due cognomi e più tardi ne ho parlato con i ragazzi del master di giornalismo, che sono più grandi, ma anche loro hanno memoria diretta solo dei Bush e di Clinton e, attenzione, sto parlando di studenti sofisticati e preparati. Poi hanno cominciato a discutere pensando che se vincesse Hillary allora la situazione continuerebbe oltre i loro trent´anni. Mi hanno chiesto di capire e di discuterne». E come ha spiegato loro questo fenomeno? «Certamente è un tema potente di riflessione, che scatena molte domande e paragoni storici. Sono partito da lì, perché la storia americana non è comunque nuova alle dinastie, basti pensare al secondo presidente degli Stati Uniti, John Adams, che governò fino al 1801, ma che 24 anni dopo fece a tempo a vedere suo figlio John Quincy Adams diventare il sesto presidente; oppure a William Henry Harrison, presidente per un solo mese per colpa della polmonite presa proprio il giorno dell´inaugurazione del suo mandato, e a suo nipote Benjamin che fu presidente alla fine dell´Ottocento. Certo stiamo parlando di qualcosa di diverso, non siamo di fronte ad un´alternanza così ravvicinata come quella che si è vista in questi anni e che si avrebbe se Hillary Clinton fosse eletta alla Casa Bianca». Poi ci sono stati i Kennedy «Un´altra dinastia americana che continua ancora oggi. Il caso di Bob però non creò nessun tipo di dibattito di quel tipo, perché appariva come la continuazione di qualcosa che era stato prematuramente interrotto». Come è possibile spiegare il passaggio di potere di padre in figlio in una democrazia? «I caratteri che spiegano le dinastie politiche mi sembrano simili a quelli che giustificano le dinastie di attori: celebrità, riconoscibilità del nome, familiarità, nostalgia, a cui in politica va aggiunta la maggiore facilità con cui si possono racccogliere soldi». E´ anche il caso di Hillary Clinton. «Bisogna però riconoscere che con Hillary siamo di fronte ad una donna con una grande preparazione, con una complessità di pensiero e un notevole bagaglio personale che non dipende totalmente dal marito. Più difficile spiegarsi come George W, Bush sia diventato presidente, non ha le abilità politiche della Clinton e nel suo caso ha pesato maggiormente la cerchia di potere del padre. Basti pensare alla quantità di soldi che piovve sulla sua campagna alla fine del 1999 e che chiuse la partita nel campo repubblicano». Vede un pericolo, non pensa che anche se le regole e i caratteri formali della democrazia sono rispettati, la sostanza sia messa in crisi? «No, onestamente no. Non penso che ci sia stato un cambiamento della nostra democrazia, mi sembra che i caratteri fondamentali siano rispettati, a partire dal fatto che la gente va alle urne a votare e lo fa in modo libero e trasparente. Nel caso attuale, anche osservando cosa sta accadendo in questi giorni si potrebbe anzi dire che il tema dinastico stia creando problemi a Hillary Clinton, la lega al passato, riduce le sue possibilità e schiaccia le sue capacità». Nessun pericolo allora? «Il pericolo è nei soldi, ma è un discorso che va al di là delle dinastie, visto che in questo caso Barack Obama ha raccolto tanti finanziamenti quanti la Clinton. E´ qualcosa che parla di condizionamenti dei poteri economici sulla politica. Il processo della raccolta dei fondi non è sano, ma è talmente potente che va ben al di là delle dinamiche padri-figli o mariti e mogli». In questa campagna il tema dei padri illustri è molto presente. «Sì, ci siamo dimenticati di segnalare che il padre di Mitt Romney, il candidato mormone repubblicano, era stato governatore del Michigan e anche lui in corsa per la Casa Bianca nel 1968. C´è poi il caso di John McCain che è il prodotto di una dinastia militare, ma qui entriamo in una sfera diversa che ci parla di tradizioni e di appartenenze che si tramandano nelle famiglie e che investono tutti i campi, ben al di là della politica». MARIO CALABRESI