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 2008  gennaio 07 Lunedì calendario

Troppa carta la Biblioteca scoppia. La Stampa 7 Gennaio 2008. ROMA. Il direttore Osvaldo Avallone alza la mano e fa il segno del tre: «Tra tre anni la biblioteca nazionale centrale di Roma scoppia»

Troppa carta la Biblioteca scoppia. La Stampa 7 Gennaio 2008. ROMA. Il direttore Osvaldo Avallone alza la mano e fa il segno del tre: «Tra tre anni la biblioteca nazionale centrale di Roma scoppia». Nonostante i suo dieci piani di deposito, 50 mila metri quadri di superficie e ben 28 chilometri di scaffalature, ha finito lo spazio. Ogni anno, infatti, arrivano 50 mila nuovi «documenti», libri per lo più, ma anche opere in più volumi, come enciclopedie, raccolte di periodici, gazzette ufficiali, e poi dvd, vhs, audiolibri, eccetera: in media un tir di materiali al giorno. Il ministero dei Beni culturali ha tempo fino al 2010 per pensare dove ospitare questa massa infinita e crescente. Il cimitero delle parole Nonostante le sue criticità (come la costante mancanza di denaro) e la sua imminente tracimazione cartacea, questo gigante sofferente esercita su chi ama la lettura un sortilegio irresistibile. Intanto per il luogo: la Biblioteca, che nasce dal fondo librario dei gesuiti del Collegio romano, sorge sui resti dei «castra praetoria» di Tiberio, la caserma dei carabinieri di allora. Un’altra caserma, moderna, incombe su quella stessa area e si chiama «Macao», dal nome dalla casa dei novizi gesuiti che prima vi sorgeva e che, a sua volta, portava il nome della più importante missione estera di questi chierici (a Macao, appunto). Gesuiti, libri e caserme, insomma, sono connaturali al sito. Una mattina del 1945 - dice l’incipit del best seller «L’ombra del vento» di Carlos Ruiz Zafon - il proprietario di un modesto negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Danièl, nel cuore della città vecchia di Barcellona al «Cimitero dei Libri Dimenticati», un luogo in cui migliaia di libri di cui il tempo ha cancellato il ricordo, vengono sottratti all’oblio. Nella mattinata grigia e piovosa in cui «La Stampa» visita la Biblioteca, questa è l’atmosfera che si respira negli sterminati depositi (un edificio di dieci piani lungo 200 metri). L’idea è che per alcuni volumi questo sia un vero cimitero, ancorché pulito, arioso e invaso dalla luce. E tuttavia un luogo indispensabile, un ammasso preventivo di fronte a un non-si-sa-mai del sapere e della civiltà: «Fondare biblioteche - fa dire la Yourcenar ad Adriano, nelle «Memorie» - è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire». La vocazione della Biblioteca nazionale centrale di Roma però (come della sua gemella di Firenze) non è quella di selezionare e scegliere - come accade per tutte le biblioteche private - ma di raccogliere acriticamente tutto: il basso e l’alto, il sublime e l’ovvio, il poetico e il patetico, la prosa e il prosaico. E così - per dire - al quinto piano, una gentile signorina ci immette nella sezione periodici: «La Stampa» è in bella mostra, rilegata per annate in tela écru, ci sono anche tutti gli altri quotidiani, beninteso, e anche alcune testate straniere (per esempio la Bild Zeitung), poi scorgiamo la collezione di ”Ferramenta”, una sorta di ”house organ” dei negozi di settore, e via discorrendo, fin tanto che ci imbattiamo nella classificazione «compactus B 1086» a cui corrispondono le riviste porno, anch’esse in elegante rilegatura per annata, con didascalia sul dorso: «Femmine accalorate, 1972», segue classifica e collocazione, come previsto dal sistema Dewey adottato internazionalmente. «La Biblioteca recepisce tutto - spiega il direttore - e nel tutto ci sono la saggezza e la stupidità, libri preziosi e pubblicazioni da nulla. Non c’è, in questa raccolta, l’enfasi retorica del sapere e della sua costruzione, ma solo l’intento di una documentazione storica, senza ulteriori specificazioni: questo è quanto l’Italia ha prodotto, e basta». Dal 2004 la Biblioteca riceve, per legge, tutto ciò che viene stampato per la pubblicazione, ma prima questa specificazione non c’era e arrivava tutto ciò che veniva stampato a qualsiasi titolo: dai biglietti del tram alle partecipazioni di nozze, dalle cartoline illustrate ai santini, dai ricordini funebri ai poster, dalle bollette del telefono ai volantini pubblicitari. Materiale classificato come «stampa minore», ma non per questo storicamente meno interessante, soprattutto in prospettiva. La Biblioteca nasce nel 1876, nella nuova sede giunge nel 1975, prima era al Collegio Romano dei Gesuiti (dove oggi è il ministero dei Beni culturali) e proprio da lì arrivano il nucleo originario del fondo e anche gli arredi migliori, tra cui i tavoli di castagno del Settecento utilizzati nella modernissima sezione dei manoscritti antichi. Due funzionarie aprono su questi tavoli volumi che farebbero impazzire qualunque bibliofilo e che normalmente gli studiosi consultano su supporto digitale. Il «Bencao pinhui jingyao» (essenza della farmacopea ordinata e classificata) è un’opera cinese datata all’inizio del ”500, in 36 volumi, completamente scritti a mano e illustrati, che espone tutta la farmacopea dell’epoca con i relativi riferimenti a piante e animali. L’opera fu voluta dall’imperatore Xiao Zong, della dinastia Ming, e questo esemplare fu portato in Italia da un vescovo gesuita. Sugli stessi tavoli si aprono poi la «Legenda major» che san Bonaventura dedica a san Francesco, e poi ci sono gli atlanti (quello del Millo è di inzio ”500, di grandi dimensioni e con copertina in cuoio originale), le carte geografiche, la genealogia degli Estensi con ritratti accuratissimi dei principi. L’amante del Vate Ma la struttura ospita anche fondi recenti, come quello dello studioso di cose romane, Giuseppe Ceccarelli (detto Ceccarius): 30 mia documenti tra cui 4 mila volumi e 1500 foto rarissime dell’Urbe ottocentesca. Sono state acquisite anche le biblioteche del francesista Giovanni Macchia (con preziose edizioni francesi del Settecento), del musicista Francesco Siciliani (libri e spartiti di grande interesse filologico), del critico letterario Enrico Falqui. Ma anche scrittori contemporanei hanno voluto lasciare qui i loro archivi: la mostra «Le stanze di Elsa» ha illustrato il lascito di Elsa Morante e un’analoga iniziativa ha riguardato le opere di Pasolini. D’Annunzio, come prevedibile, ha ecceduto la misura: allo sterminato archivio di manoscritti, si associa quello dei cimeli «letterari». Su un’ampio ventaglio di carta gialla c’è una poesia autografa dedicata a Barbara Leoni: eterno amore. Di quel momento. RAFFAELLO MASCI