Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  gennaio 06 Domenica calendario

I poeti son poeti perché scrivono poesie. Il Giornale 6 gennaio 2008. Per gli scrittori è facile parlare della scrittura

I poeti son poeti perché scrivono poesie. Il Giornale 6 gennaio 2008. Per gli scrittori è facile parlare della scrittura. Ma le rime sfuggono ad ogni ritratto fedele... Ciclicamente, la poesia si sente chiamata a spiegare perché esiste, cosa ci sta a fare, come sta di salute, che intenzioni ha, a chi serve. E inizia a raccontarsi, a illustrarsi. Quasi a sfogarsi parlando di se stessa. A volte è convincente, a volte meno. Ma è un poeta in carne e ossa quello che racconta e illustra. E qui tante strade si dividono e alcune non portano da nessuna parte perché ogni autore sente e intende la letteratura a suo modo. Dipende dalla poetica a cui aderisce, ma soprattutto dal ruolo che si attribuisce nella vita e (se ci pensa davvero) nella storia: funzionario dell’umanità e delle muse, travet del linguaggio, straccione inabile a tutto salvo che a far versi, semifolle che verbalizza sogni e visioni, oracolo autoconclamato, modesto mestierante imprestato alle lettere, viaggiatore notturno, semplice amateur... Infinita, la costellazione delle presentazioni, dei ritratti, perfino delle pose. Certo, qui è accaduto un evento davvero paradossale: un autore di versi si è definito non in quanto uomo o donna o altro ma proprio e unicamente in quanto autore di versi allo stato purissimo. Ha, insomma, usato la poesia per infiltrarsi dentro se stesso nell’atto di fare poesia. E allora non si capisce più se quell’autore si è irrimediabilmente schiacciato sul suo io poetante o se ha guadagnato un punto di vista altissimo, se siamo di fronte a un irritante segno di narcisismo radicale o di autoconsapevolezza critica dignitosissima e liberatoria. O a una mistura di ambedue, a un salire che è anche un discendere. Certo, l’evento è circolare e, diciamolo ancora una volta, paradossale. Ma nelle storie ricorre. E in forme svariate, diverse, spesso opposte. Con valori letterari differenti. Perché, passando in rassegna le 500 poesie sulla poesia lodevolmente proposte da Nicola Crocetti nel numero 223 della rivista Poesia, l’impressione è quella di intravedere, forse per la prima volta, un genere letterario trasversale, che ammette al suo interno immersioni abissali nell’io poetico e, insieme, momenti di leggerezza ironica lievissima, aerea. Una raccolta inattesa. Mi domando, allora, se in una immaginaria classifica sarebbe da preferire la lievità di chi arriva a sfiorare, verbalizzando il proprio essere poeta in azione, una sorta di metalinguaggio attraverso il quale aprirsi la possibilità di parlare ai propri versi o la «pesantezza» di chi si impegna a seguire dall’interno i momenti in cui la parola lo aggredisce e poi si dispone sul foglio. Sono, ambedue, gesti estremi, ardui. Destinati a pochi. La strada meno convincente, in questo caso, è quella di mantenersi in una via mediana: dichiararsi autore di versi è, in fondo, facile, perfino tautologico. Il difficile è farlo dimenticando di esserlo. come arrivare a riguardare la propria opera dall’alto o dal basso. In ogni caso: da fuori. Forse, questo è un percorso che porta molto vicino al silenzio o al caos preverbale. O alle ultime parole prima del silenzio e del caos. possibile stabilire quali poeti sono realmente arrivati da quelle parti? Quali hanno, eventualmente, millantato il viaggio? E, pensando a questa immaginaria marcia, sarà lecito compilare una classifica secondo la quale vale di più chi è arrivato più vicino a tacere? Parlare del proprio sé nell’atto di scrivere, fare «poesia sulla poesia» è un gesto costituzionalmente esposto al rischio di enfasi, di eccessi autobiografici, di apologie autoreferenziali. Forse, questo è il momento topico in cui, nella letteratura, più lontano è arrivato chi si è interrogato e poi ha taciuto. Rispondere, è stata di per sé una forma di arroganza sapienzale, di presunzione strisciante o manifesta. Meglio chi ha mantenuto profili bassi o bassissimi. O chi quei profili li ha simulati, costruiti come una maschera dietro cui nascondersi. Ottimo, se la maschera è stata credibile. Allora e solo allora il gesto di «parlare da poeta della poesia» ha rappresentato non un incentivo ma una vaccinazione contro le ricorrenti invasioni dell’enfasi, un gran controveleno, un farmaco al conformismo della retorica. E una gerarchia delle più alte e rappresentative «poesie sulla poesia» (limitata al Novecento e alla lingua italiana) dovrà, a modesto avviso di chi legge, tenerne conto. Mario Santagostini