Il Giornale 06/01/2008, pag.24 Antonio Lodetti, 6 gennaio 2008
Prima e dopo la rivoluzione americana andavano di moda i musicisti neri
È nata dal dolore degli schiavi. arrivata ai miliardi di Jackson. Il Giornale 6 gennaio 2008. «In vendita schiavo negro, sui 40 anni, conosciuto in città come violinista»; «In vendita giovane negro, grande abilità nel suonare il corno francese». I giornali di metà ”700 in America raccontano le prime notizie sulla musica nera nel Nuovo Mondo. Mentre, come scrisse Benjamin Franklin, «la lotta per la sopravvivenza dei coloni stava per finire ed essi potevano dedicarsi alle arti» (a Boston nel 1729 si tenne il primo concerto pubblico di classica e a Charleston la prima opera: Flora or Hob In the Well), i neri stavano ancora adattandosi alla schiavitù e allo stile di vita dei padroni. Prima e dopo la Rivoluzione Americana, ai balli dell’alta società erano di moda i musicisti neri. In Virginia è ancora vivo il mito del violinista Sy Gilliat il quale, con il flautista London Briggs, apriva le feste con i «minuetti di corte», partendo poi con musiche sfrenate, contraddanze, «congos»; il suo erede George Walker era acclamato come «miglior leader di gruppo musicale delle Virginie», mentre a New Orleans il mitico Massa Quamba guadagnava «persino» tre dollari a sera. Congo Square Non è un caso se si dice che il jazz sia nato a New Orleans; già nel 1780 migliaia di schiavi si radunavano in Congo Square per far musica. Le orchestre suonavano tamburi fatti con ceppi di eucalipto e pelle di pecora, banjo ricavati dalle zucche e sonagli realizzati con mandibole di cavallo. Così muove i primi passi la musica afroamericana, il canto di lavoro, il blues, il jazz e le loro mille propaggini che si allungano fino al rap raccontate nel volume di Eileen Southern La musica dei neri americani. Dai canti di lavoro ai Public Enemy (il Saggiatore, pagg. 686, euro 45). Una storia in cui la musica cresce parallelamente alle tragedie dei suoi protagonisti: una lotta la cui estetica sottolinea le contraddizioni (dalla schiavitù alla segregazione) e il cui linguaggio tende a combatterle. Il primo territorio libero che i neri conquistano sono le chiese. La First African Baptist Church di Savannah, Georgia, fondata nel 1789 dall’ex schiavo Andrew Bryan, fu la prima congregazione nera permanente. Dall’incontro fra inni cristiani e riti africani le funzioni diventano un indiavolato spettacolo dove la coralità della preghiera è accompagnata dal ritmico strisciare dei piedi, dal battito delle mani, dal muoversi in cerchio, da urla onomatopeiche. «Dopo il sermone cantavano allegramente - scrivono alcuni testimoni bianchi - fino a rimanere esausti e senza fiato. Urlavano ”Venite a Sion”, ”Alleluja” un migliaio di volte ripetendolo in un coro straordinario. Gridavano e saltavano esclamando ”O Signore”, ”Dammi Gesù”». In questi canti, radici del gospel e dello spiritual, si fondono gli antichi ritmi africani, i salmi angloirlandesi e luterani e ballate folk come Fol de rol; per questo bluesmen inquieti come Son House crescono in chiesa vivendo la lacerazione tra musica religiosa e musica del Diavolo. Queste pratiche non erano viste di buon occhio dai bianchi: il capo metodista John Fanning Watson tuonò: «Tra noi c’è un male crescente, la pratica di cantare in chiesa arie allegre, adattate da vecchie canzoni, e abbinarle a inni da noi composti ma cantati da neri analfabeti». Eppure questo non fu il periodo più duro per la gente di colore. Tra il 1780 e il 1830 sulla frontiera nasce il «Great Awakening», il «Secondo risveglio», con i «camp meetings», oceanici raduni all’aperto dove bianchi e neri si riunivano a pregare. Di notte erano uno spettacolo grandioso: «enormi falò bruciano ovunque e pare che l’intero bosco sia in fiamme. Il canto si propaga per tutta la notte soprattutto dall’ala dei neri, che sono tre volte più numerosi dei bianchi e le loro voci più belle e pure», ricorda la scrittrice Fredrika Bremer. Sui libri la fine della guerra di Secessione segna l’inizio della libertà per i neri, ma in realtà le cose per loro cambiano in peggio. Con il crollo della civiltà sudista, le case neoclassiche saccheggiate da neri e bianchi poveri, i rapporti di produzione saltati, i neri non sono più protetti dai latifondisti, ma si trasformano in «quattro milioni di drammatici problemi personali». Così in poco tempo molti Stati li privano dei diritti politici, li segregano in appositi spazi nei treni e nei bar, il Ku Klux Klan e gli sceriffi li perseguitano. «Mi arrestarono per omicidio e non ho mai fatto male a nessuno./ Mi arrestarono come falsario e non so scrivere il mio nome», canta Furry Lewis in Judge Boushat Blues. I «menestrelli» Grazie all’Emancipazione però i neri entrano nel mondo dello spettacolo uffciale grazie alla «minstrelsy». Un tempo gli spettacoli di «minstrelsy» erano animati dai bianchi, che truccandosi di nero parodiavano grottescamente le canzoni e l’atteggiamento dei negri. Ma dal 1865 nascono centinaia di compagnie di «black minstrelsy». A fronte di personaggi come Daddy Rice (che portò sulla scena il corvo Jim Crow, da cui presero nome le leggi segregazioniste) emersero i Georgia Minstrels, Charles «Barney» Hicks, Gussie Davis, autore di migliaia di evergreen, il leggendario ballerino Bill Robinson, detto Bojangles. Già nel 1902 il musical di Bert Williams (poi star delle Ziegfield Follies) e George Walker In Dahomey è un enorme successo, e così altri spettacoli in cui suonano futuri jazzmen come Eubie Blake, Fats Waller e W.C. Handy, autodefinitosi «papà del blues». Il passaggio dalla minstrelsy al vaudeville (e agli spettacoli itineranti del medicine show, baracconi in cui uno pseudo-medico ingaggiava artisti per vendere i suoi intrugli) si sviluppa la tradizione del «songster», il cantante chitarrista, figlio del cantastorie africano jillikea e del griot, di cui i primi grandi esempi sono Gus Cannon detto «Banjo Joe», Jim Jackson, Mississippi John Hurt. Il blues Si trovano qui le tracce del primo blues, le cui origini sono ancora confuse. Handy disse di aver scoperto il blues nel 1903. «In una stazioncina del Mississippi c’era un nero vestito di stracci che cantava e suonava la chitarra in modo strano esprimendo una tristezza atavica». Ma Rainey, la prima star blues, sostiene di averlo ascoltato da una ragazzina che piangeva la perdita del fidanzato. Le strade del blues, delle folk ballad e dello spiritual si incrociano dall’inizio del Novecento. Di lì a poco le strade del Mississippi sarebbero diventate compagne di miseria e avventura di artisti come Sylvester Weaver (nel 1923 è il primo ad incidere un blues per voce e chitarra), Charley Patton, il satanico Robert Johnson, così come quelle del Texas avrebbero visto giganti come Blind Lemon Jefferson e quelle dell’Est virtuosi ciechi come «Blind» Blake e la stella discografica «Blind» Boy Fuller. Se si conoscono vita morte e miracoli di Louis Armstrong, Duke Ellington, John Coltrane, il libro della Southern, nel suo imperdibile incrocio fra storia e aneddotica ripesca personaggi oscuri come Francis Frank Johnson, idolo delle folle, direttore di bande militari e orchestre da ballo. Famoso per la sua tromba d’argento, fu il primo a creare una scuola di musicisti neri, a suonare in un’orchestra bianca e a portare la sua band in Europa. Ricordando che sono trascorsi 400 anni da quando «gli africani cominciarono a cantare in quel triste Paese straniero», la Southern si spinge all’oggi, raccontando come, da quelle popolari ma nobili radici, si sviluppino fenomeni come il blues moderno, Michael Jackson, i Run Dmc, il rap di Snoop Doggy Dogg. Un panorama desolante per i puristi? Noi pensiamo di no e sottoscriviamo la chiosa della Southern: « improbabile che gli stili della musica nera scompaiano. Caratteristica della musica nera non è la protesta né l’espressione artistica, ma la comunicazione, e non si può immaginare un tempo in cui gli artisti neri non avranno nulla da dire agli altri o a Dio. I canti degli schiavi si sono trasformati nella minstrelsy, il jazz è entrato in Gershwin e Stravinskij. La reazione del nero a questa assimilazione è stata quella di inventare una nuova musica, rimpiazzando gli spiritual con i gospel, il jazz tradizionale con il bebop, l’r’n’b con il soul. Il vecchio non viene mai scartato, ma riassorbito nel nuovo». Antonio Lodetti