L’Espresso 26/12/2007, ENRICO PEDEMONTE, 26 dicembre 2007
2008 L’ALTRA AMERICA
L’Espresso 26 dicembre 2007. Butta giù chi sta in alto: « un vecchio detto della rivoluzione messicana che spiega bene l’umore degli elettori americani», dice John Zogby, uno dei più noti e acuti sondaggisti d’America: «Quattro anni fa democratici e repubblicani erano arrabbiati gli uni contro gli altri, oggi sono arrabbiati e basta. La loro parola d’ordine è ”cambiamento” ». Come in Italia, anche negli Stati Uniti soffia forte il vento dell’antipolitica e due campioni come Hillary Clinton e Rudy Giuliani, che fino a pochi mesi fa erano considerati i vincitori quasi certi nella gara per la nomination nei due partiti, ora sono in difficoltà. Tra i democratici sale la stella di Barack Obama, il giovane e carismatico senatore nero dell’Illinois, mentre tra i repubblicani emerge lo sconosciuto Mike Huckabee, governatore dell’Arkansas ed ex predicatore battista, che raccoglie i voti della destra religiosa e pone una seria ipoteca sulla nomination. Sette anni di presidenza Bush hanno modificato i lineamenti della politica americana. Le vecchie divisioni ideologiche tra conservatori e liberal ci sono sempre, ma i troppi fallimenti e l’incompetenza spesso dimostrata dall’amministrazione in carica hanno creato una divisione ancora più netta nel Paese: quella tra i cittadini e Washington. Dalla gestione disastrosa dell’uragano Katrina al recente scandalo dei nastri cancellati dalla Cia, il gradimento del presidente in carica è sceso al 28 per cento, un minimo storico paragonabile solo ai record negativi toccati da Richard Nixon prima dell’impeachment del 1974. Ma il partito di opposizione non è riuscito a sfruttare appieno la debolezza della Casa Bianca: il Congresso ha un indice di gradimento ancora più basso, perché i democratici che lo controllano litigano su tutto e stanno bruciando il successo nelle elezioni di medio termine dell’anno scorso. In questo clima anti-sistema quando Hillary si presenta in tv e si vanta di avere alle spalle 25 anni di esperienza politica, accusando i suoi avversari di essere dei neofiti, non appare convincente: di questi tempi troppa esperienza politica non genera fiducia, ma sospetto. Fino a un mese fa l’ex First Lady sembrava la sicura vincitrice delle primarie democratiche, ma a partire dalla fine di novembre i sondaggisti la danno in discesa quasi ovunque, specie negli Stati da cui partiranno i caucus e le primarie in gennaio: il 3 gennaio in Iowa, e poi nel New Hampshire e in South Carolina Sul calo dei consensi a Hillary, e sulla contemporanea crescita di Obama, può aver pesato la discesa in campo di Oprah Winfrey, di gran lunga la conduttrice di talk show preferita dagli americani. Oprah ha passato un intero weekend a fianco di Obama, lo ha accompagnato nei suoi viaggi elettorali ed è riuscita ad attrarre quasi 30 mila fan in uno stadio in South Carolina, un’impresa record per un comizio politico in quella zona. Ma la comparsa di Oprah sulla scena elettorale non basta a spiegare l’appannamento della signora Clinton. Larry Sabato, uno dei più noti analisti Usa e direttore del centro per la politica della University of Virginia, dice che è la stessa personalità di Hillary a creare divisioni. Molti americani sono stufi di vivere in un paese così polarizzato. La contrapposizione radicale tra liberal e conservatori divenne più aspra negli anni di Bill Clinton e ha raggunto livelli parossistici durante la presidenza Bush: «Molti temono che se Hillary salirà alla Casa Bianca, la sua sola presenza ricreerà quella polarizzazione estrema di cui gli elettori moderati si vogliono liberare». Inoltre, aggiunge Sabato, un numero crescente di americani non ama l’idea di una dinastia familiare: se lei fosse eletta questo significherebbe che due sole famiglie, i Bush e i Clinton, si sarebbero passati la Casa Bianca per 28 anni consecutivi, come in una Repubblica delle banane. Se accadesse in un altro paese ci faremmo delle risate». L’antipatia da cui è circondata la candidatura di Hillary è dovuta solo in parte al suo atteggiamento freddo, alla sua fama di donna calcolatrice e ai suoi occhi di ghiaccio. Recentemente l’ex First Lady ha commesso diversi errori. Alcune settimane fa ha definito le Guardie rivoluzionarie di Teheran una organizzazione terroristica, e molti, a sinistra, l’hanno accusata di voler inseguire il radicalismo di Bush nei rapporti con l’Iran per conquistare voti moderati. Poi ha rifiutato di togliere il segreto di Stato ai documenti sulla sua vita alla Casa Bianca tra il 1992 e il 2000, un veto che le è già stato rimproverato diverse volte e rischia di diventare un tormentone nei dibattiti pubblici. Ma il vero tallone d’Achille di Hillary è un altro. Nonostante la sua fama e il fascino da lei esercitato nei confronti della maggoranza dei democratici, molti analisti mettono in discussione la sua eleggibilità nelle presidenziali. «Tutti i più importanti candidati democratici trionferebbero facilmente contro qualunque esponente repubblicano», dice Sabato: «Bill Richardson, governatore del New Mexico, è quello che vincerebbe con lo scarto maggiore, seguito da Obama ed Edwards. A fare più fatica sarebbe proprio Hillary, che stando ai sondaggi la spunterebbe solo per un soffio. La sua stessa presenza alle elezioni farebbe accorrere legioni di conservatori e repubblicani alle urne». Il vento dell’antipolitica che mette alle corde Hillary non nasce solo dai disastri combinati da George Bush negli ultimi sette anni. Sulle reti televisive americane prosperano leader populisti come Lou Dobbs, giornalista della Cnn, che tutti i giorni tuonano contro una globalizzazione che rende più facile importare le merci ed esportare i posti di lavoro. E sotto accusa ci sono accordi internazionali come il Nafta, il trattato di libero scambio con Canada e Messico che fu firmato da Bill Clinton negli anni Novanta. Negli Stati Uniti le ineguaglianze sociali stanno crescendo, la distanza tra ricchi e poveri ha ormai raggiunto il livello degli anni Venti, e la classe media sente minacciato il proprio ruolo sociale e il proprio potere d’acquisto. Sul banco degli imputati non finiscono solo gli immigrati illegali che arrivano dal Messico, anche la grande industria che licenzia colletti bianchi americani per investire in manodopera a basso costo nei paesi in via di sviluppo. L’economista Paul Krugman ha scritto sul ”New York Times” che i democratici vinceranno le elezioni del 2008 se cavalcheranno l’ondata populista che dilaga negli Stati Uniti. Il modello suggerito è quello di John Edwards, il candidato democratico che propone di cambiare radicalmente i trattati di scambio con l’estero, imponendo regole sindacali e ambientali più rigide ai paesi che esportano merci verso gli Stati Uniti. Edwards si presenta come il campione dei poveri, il paladino della sinistra sindacale e contemporaneamente il difensore dei diritti di una classe media che rischia la bancarotta per effetto della globalizzazione. Anche Hillary ha dovuto adeguarsi al clima culturale dominante. Negli ultimi mesi ha votato contro un trattato di libero scambio con gli Stati dell’America Centrale e con la Corea del Sud, e ha chiesto di sospendere la firma di nuovi accordi commerciali internazionali. Si tratta di un’inversione di 180 gradi rispetto alle posizioni del marito presidente. Hillary si è spinta fino a chiedere ”leggi punitive” contro la Cina per obbligare Pechino ad abbassare la difesa dello yuan e a modificare le politiche commerciali. Sull’immigrazione i democratici non hanno molto spazio di manovra. Gli elettori ispanici sono ormai oltre il 13 per cento degli aventi diritto al voto, e ogni anno il loro peso cresce. Nel 2004 i democratici conquistarono il 60 per cento dei loro voti, ma l’anno prossimo sperano di sfondare quota 70 perché i conservatori hanno scelto la linea della durezza contro i 12 milioni di immigrati illegali, opponendosi a qualunque accordo, pur patrocinato da Bush, per la loro legalizzazione. Per i democratici si tratta di un terreno minato, perché conquistando i voti messicani rischiano di perdere i moderati bianchi del Mid West, ma il partito è compatto nel sostenere una legge che elimini la piaga degli illegali. Richard Bond, ex presidente del Republican National Committee, dice di non ricordare, negli ultimi quarant’anni un’altra elezione in cui gli elettori democratici fossero così soddisfatti dei loro candidati e gli elettori repubblicani così scontenti. Persino l’ex sindaco di New York Giuliani e il governatore Huckabee, che pure sono in testa nei sondaggi, sono visti con simpatia da meno della metà del loro elettorato tradizionale. Stuart Rothenberg, fondatore del Rothenberg Political Report, sostiene che la destra religiosa è saltata sul carro di Huckabee perché in lui ha trovato «l’unico candidato che non era un mormone come Romney, che nella vita ha spesso cambiato idee sui temi morali; e neppure un adultero come Giuliani, che anni fa era favorevole all’aborto e ai diritti dei gay; e neppure un laico come John McCain, che in passato ha attaccato la destra religiosa». Così, quando sulla scena è spuntato il nome di Huckabee, molti hanno sperato che fosse lui l’uomo della provvidenza: «I repubblicani stanno cercando un salvatore », spiega Larry Sabato: «Da vent’anni sono alla ricerca di un secondo Ronald Reagan, un oratore carismatico dotato di senso dell’umorismo, e in questo momento molti di loro subiscono il fascino di questo predicatore del Sud, che nei dibattiti spicca per la sua arguzia». Una delle follie del sistema elettorale Usa prevede che il primo appuntamento elettorale sia in uno Stato rurale come l’Iowa, dove sono ovviamente favoriti i candidati più conservatori. Sabato fa notare che quasi la metà degli elettori repubblicani, in questo Stato, appartiene alla schiera dei fondamentalisti religiosi. Sono loro che nel caucus del 1988 diedero la vittoria al predicatore Pat Robertson. E saranno ancora loro che faranno vincere Huckabee, dandogli una forte spinta nelle primarie che seguiranno. Anche la destra religiosa è cambiata negli anni di Bush. «Le grandi battaglie a sfondo morale su temi come l’aborto e il matrimonio gay continuano ad avere la loro importanza », fa notare Zogby, «ma i problemi etici dominanti sono ormai altri: l’ambiente, la povertà, l’assistenza sanitaria universale». l’America tradizionale che riemerge a destra come a sinistra. Il pastore dell’Arkansas Huckabee ripete ogni giorno di non essere il candidato di Wall Street. E Obama, per anni volontario nei sobborghi poveri di Chicago, ricorda da ogni palco di essere andato a Detroit a dire agli stati maggiori delle società automobilistiche che avevano sbagliato tutto nella loro politica industriale e ambientale. D’altra parte il successo incontrastato di Hillary Clinton e di Rudy Giuliani lasciava increduli gli analisti. Non si era mai visto nella storia delle elezioni americane che a dominare la scena fossero due candidati di New York, una città troppo moderna socialmente, anomala culturalmente e allo stesso tempo troppo legata al potere di Wall Street per convincere l’anima profonda del Mid West. Ora l’onda del successo spinge avanti due candidati più credibili nell’attaccare l’establishment politico e industriale, come prevede quest’epoca di populismo dilagante. Dice Zogby che a poche settimane dal voto in Iowa la situazione è così incerta su entrambi i fronti che «il futuro presidente degli Stati Uniti potrebbe non essere ancora entrato in corsa». All’inizio di febbraio, dopo il voto del SuperTuesday, i repubblicani potrebbero ritrovarsi senza un candidato certo da nominare: «A quel punto si renderanno conto di non amare granché né Giuliani, né Romney, né Huckabee. E allora potrebbero tirare fuori dal cappello un altro nome, magari Haley Barber, il governatore del Mississippi, o addirittura il generale David Petraeus, protagonista della svolta in Iraq». Per i democratici l’eventualità di uno stallo è assai remota, ma se dovesse capitare, allora potrebbe riemergere il nome di Al Gore, che dopo il premio Nobel per la pace ha ormai un ruolo super partes. E i giochi si riaprirebbero.
ENRICO PEDEMONTE