L’Espresso 26/12/2007, PETER GOMEZ E MARCO TRAVAGLIO, 26 dicembre 2007
ALI’ SACCA’ STORY
L’Espresso 26 dicembre 2007. Ora che il lungo regno di Alì Saccà pare davvero al tramonto, nel corridoio di Raifiction c’è chi ricorda le sue ultime parole famose: «Sai, in fondo a me dei soldi non me n’è mai fregato niente. Vivo come un francescano, abito in un appartamento di 65 metri quadri, mi accontento di un tozzo di pane e una fetta di formaggio». E, mentre i giornali parlano delle indagini a suo carico per corruzione e di fondi neri su conti svizzeri per 275 mila euro, l’unica meraviglia è per la cifra: «Ma come, solo 275 mila?». La storia di Agostino Saccà da Taurianova è un misto di leggenda e realtà. Dove però la realtà supera la leggenda e la peggiora. I primi passi don Agostino li muove da giornalista socialista, prima al ”Giornale di Calabria” poi a ”Panorama”. Nel 1976 approda alla Rai. Tre anni al Gr. Poi al Tg3: un garofano a Telekabul. Nell’87 passa a RaiDue, vice del direttore craxiano Luigi Locatelli. Nel ”94 trasloca in Forza Italia, giusto in tempo per la prima abbuffata berlusconiana in viale Mazzini: assistente della presidente Letizia Moratti, poi capo della comunicazione. Nel ”96 l’Ulivo vince le elezioni. Lui, previdente, ha già fatto amicizia col responsabile informazione del Pds, il turbodalemiano Claudio Velardi. La Rai però tocca ai veltroniani e, nell’era di Enzo Siciliano e Franco Iseppi, don Agostino finisce nel cono d’ombra almeno finché, nell’ottobre ”98, D’Alema non espugna palazzo Chigi e viale Mazzini in un colpo solo. Il nuovo dg Pierluigi Celli gli regala RaiUno, dove comincia a imperversare Bruno Vespa. Saccà mette in piedi un triumvirato col dalemiano Marcello Del Bosco e un’altra ex craxiana folgorata sulla via di Arcore: Giuliana Del Bufalo. Ma il governo-ombra a tre punte dura poco. Nel 2000 D’Alema cade e Saccà pure. Lo parcheggiano al Marketing strategico. Ma il Rieccolo di viale Mazzini, come l’avrebbe chiamato Montanelli, sa che presto tornerà. Intanto cura ufficiosamente l’immagine di Berlusconi nell’accidentata campagna elettorale 2001. Michele Santoro propone un faccia a faccia tra i due candidati a Palazzo Chigi. Rutelli accetta, il Cavaliere no: meglio interviste separate. Santoro propone una cinquina di intervistatori: Lerner del ”Corriere”, Pirani di ”Repubblica”, Riotta della ”Stampa”, Graldi del ”Messaggero”, Rossella di ”Panorama”. Saccà chiama Santoro e lo invita al bar «per un aperitivo e un consiglio da amico». Questo: «Michele, Berlusconi non gradisce i giornalisti che hai proposto e vuol sapere le domande prima. Ti conviene accettare. Sappi che ti stai giocando il tuo futuro in Rai». Santoro potrà fingere un’intervista aggressiva, ma Berlusconi, conoscendo le domande in anticipo, farà un figurone. Una sceneggiata per salvare la faccia a entrambi. Santoro rifiuta. La pagherà cara. Saccà invece va all’incasso: appena l’amico Silvio torna al governo, rieccolo direttore di RaiUno. E nel marzo 2002, sotto la presidenza di Antonio Baldassarre, diventa financo direttore generale, previa intervista al ”Corriere” in cui rivela che «io e tutta la mia famiglia votiamo Forza Italia». Enzo Biagi lo fulmina: «Penso commosso alle nonne e alle zie». Sono i giorni del diktat bulgaro, di cui don Agostino è l’esecutore materiale. Via ”Il fatto” di Biagi e ”Sciuscià” di Santoro. Dopo un’estate di finte e controfinte («Biagi non si tocca»), è proprio lui a licenziare il grande giornalista con ”raccomandata ricevuta di ritorno”. In compenso arrivano in Rai i Mediaset Boys: Alessio Gorla ai Palinsesti e Deborah Bergamini al Marketing. Gli ascolti sono disastrosi, almeno per la Rai, che dal 2002 al 2003 perde per la prima volta la sfida del prime time, precipitando dal 47,6 al 43,6 per cento di share (Mediaset sale dal 43 al 46,4). Un crollo di 4 punti, oltre le più rosee aspettative del partito Mediaset. Nel marzo 2003 arriva un nuovo Cda, con Lucia Annunziata «presidente di garanzia». Fini chiede la testa di Saccà, Bossi pure. Berlusconi è costretto a scaricarlo: si nega persino al telefono. Don Agostino gioca il tutto per tutto: manda avanti il suo assistente, Carmelo Messina, perché convinca l’amico Tony Renis a chiamare Arcore. Messina, manager parastatale di lungo corso, è l’uomo che ha presentato a Saccà l’avvenente Michelle Bonev, sedicente «modella, pittrice, scrittrice, attrice, esperta di moda e consulente internazionale di vip», subito promossa ”opinionista” al Festival di Sanremo. Non sa che Renis ha il telefono intercettato dalla Procura di Potenza. Il 24 marzo lo chiama e gli illustra la questione: «Senti, gioia, perché non provi a chiamare l’amico tuo ad Arcore? Digli: ”Silvio, corriamo il rischio di rimanere con una mano davanti e una di dietro”… ». Si parla di sostituire Saccà con un manager esterno: «Tu digli così: ”Guarda che Fini lo vuol sentire da te che vuoi quello (Saccà, ndr)… Non puoi pensare che esce dal cilindro della divina provvidenza il nome di Saccà… perché questo ha fatto per te tutto quel che doveva fare… Santoro ecc… Se lasci che venga un esterno in Rai, la rovini, perché gli interni sono all’80 per cento di centrosinistra e non gli faranno toccar palla… L’unico in grado di imbrigliarli è Saccà”». Ma la missione fallisce. Poco dopo Tony richiama ”zio Carmelo” con la ferale notizia: «Ho chiamato Silvio e gli ho detto: ”Tu non puoi mollare, devi difendere Saccà fino alla fine”. Ma Silvio: ”Tony, faccio tutto quello che posso, ma Fini e Bossi non lo vogliono…”. Ho capito che domani lo fanno fuori». E Carmelo, affranto: « fesso. Agostino gli ha dato troppe cose senza chiedere in cambio nulla…». Al suo posto arriva Flavio Cattaneo, che recupererà qualche punto di ascolto. Saccà è candidato a Rai Fiction, ma dichiara sdegnoso: «In una casa dove si è stati padroni, non si può tornare da maggiordomi ». Poi prende al volo Raifiction, un posticino da 2-300 milioni di euro di investimenti l’anno, tutti appalti esterni. Alì Saccà lo trasforma in un sultanato ad personam, anzi ad personas, contando anche gli amici degli amici. A parte alcuni marchi collaudati, come la Lux dei Bernabei, Angelo Rizzoli, Endemol, Grundy e Palomar (quella di Montalbano), spuntano come funghi case di produzione vicine ai politici. La coerenza editoriale è un optional, ciò che importa è accontentare tutti, e pazienza se si passa dai santi di Bernabei che garbano al Vaticano, al Barbarossa che piace tanto a Bossi. Insieme a Del Noce, Saccà blocca per mesi due capolavori come ”De Gasperi” di Liliana Cavani e ”La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, sgraditi al centrodestra. In compenso spalanca le porte alla Titania di Ida Di Benedetto, fidanzata del forzista Giuliano Urbani; alla Goodtime di Gabriella Buontempo, moglie di Italo Bocchino (An); alla Cosmoproduction di Elide Melli, moglie del craxian-finiano Massimo Pini. Ma pure alla neonata Paypermoon di Claudio Velardi che, senza alcuna esperienza, si aggiudica l’appalto per la mega-fiction di 26 puntate ”Raccontami”, per la modica cifra di 12 milioni di euro (con l’anticipo di 790 mila euro Velardi trasforma la sua scatola vuota in una società vera). Poi ci sono le predilette, ”le saccarine”, spesso peraltro segnalate da terzi. Come le quattro ”attrici” raccomandate da Silvio «per risollevare il morale del capo». O le protette di un altro esperto del ramo, Salvo Sottile, portavoce di Fini. Nelle intercettazioni di Potenza, Saccà gli promette: «Sto lavorando per andare sull’obiettivo», che poi sarebbe la «protagonista femminile del ”Sangue dei vinti”». Nel 2005, dopo epici scontri, Cattaneo fa approvare dal cda una delibera che di fatto commissaria Raifiction. Ma a luglio deve fare le valige all’arrivo del duo Petruccioli- Meocci. Alì Saccà è in una botte di ferro: Petruccioli non muove passo senza consultarsi con Del Bosco, vecchio amico di entrambi. A scanso di equivoci, don Agostino riallaccia i rapporti col centrosinistra, in vista delle elezioni 2006. «In fondo», ripete ad alta voce, «sono un vecchio socialista». Un giorno irrompe alla presentazione di un libro di Celli, con cui non parla dal 2000, e lo bacia davanti a tutti. Un altro invita a pranzo Stefano Munafò, uomo del centrosinistra che ha inventato Raifiction e lui ha pensionato senza nemmeno un grazie. E non perde una festa del ”Riformista”. Così il ritorno dell’Unione non lo coglie impreparato. Confermato a Raifiction, sogna un comodo scivolo per una serena vecchiaia: una cittadella della fiction nella sua Calabria. Intanto i pm di Napoli lo sorprendono a contattare, per conto di Silvio, il senatore calabrese Pietro Fuda per l’auspicato ribaltone. L’accusa è grave: corruzione. Proprio ora che le larghe intese sembrano a un passo. E lui le aveva anticipate dieci anni fa. Le larghe intese nella stessa persona. La sua.
PETER GOMEZ E MARCO TRAVAGLIO