Il Sole 24 Ore 02/01/2008, Alberto Negri, 2 gennaio 2008
Dalla Somalia al Darfour, la polveriera Corno d’Africa. Il Sole 24 Ore 2 gennaio 2008. «Quello che non vogliamo vedere in Africa è un altro Afghanistan, un cancro cresciuto in mezzo al nulla»
Dalla Somalia al Darfour, la polveriera Corno d’Africa. Il Sole 24 Ore 2 gennaio 2008. «Quello che non vogliamo vedere in Africa è un altro Afghanistan, un cancro cresciuto in mezzo al nulla». Con queste parole il generale Jeffrey Kohler nel 2004 definì in modo esplicito la strategia di Washington nel Corno d’Africa. Bruciava ancora il ricordo di Black Hawk Down, della battaglia di Mogadiscio, quando nell’ottobre del ’93 i miliziani di Aidid massacrarono 18 marines. Da allora gli Stati Uniti sono intervenuti più di una volta nel Corno d’Africa, come è accaduto in Somalia e in Kenya per dare la caccia alle Corti islamiche, e nel tentativo di costituire un apparato di sicurezza in una regione strategica sulle rotte del petrolio e di frontiera con il mondo musulmano. Dal Sudan al Kenya, passando per l’Eritrea e l’Etiopia, fino alla regione dei Grandi Laghi, gli Stati Uniti e l’Occidente provano a mettere sotto controllo una vasta area del mondo che in buona parte sfugge a una catalogazione certa. Il problema centrale è costituito dalla presenza cronica di stati "falliti", cioè di entità che esistono soltanto sulla carta. Il caso più clamoroso è quello della Somalia, senza un vero Governo dalla fuga di Siad Barre nel ’91, e che dopo il fallimento della missione internazionale degli anni ’90 si è disintegrata lasciando aperto il campo all’ascesa di gruppi integralisti islamici. Il Sudan è da tempo nella lista degli Stati fuorilegge. Non è stato casuale che alla vigilia di capodanno il presidente americano George Bush abbia firmato una legge che consente alle autorità locali Usa di troncare qualsiasi legame commerciale o finanziario con il Sudan a causa del persistere dei massacri nel Darfur. Forse è troppo presto per dire se l’assassinio nella capitale sudanese di un alto funzionario di UsAid e del suo autista sia collegato a questa decisione, ma è chiaro che Washington tiene sotto pressione il Sudan, in passato obiettivo dei Cruise americani e nel mirino degli Stati Uniti per aver ospitato anche Osama bin Laden. Neppure l’ultimo viaggio in Europa del presidente Omar el Bashir, che ha effettuato un’importante tappa d’affari in Italia, ha convinto gli americani sulle intenzioni del Governo sudanese, protagonista nei mesi scorsi di un’offensiva diplomatica per uscire dall’isolamento e trovare un’alternativa ai partner cinesi che hanno nel Paese consistenti interessi petroliferi. Il forte carattere islamico del regime rimane l’elemento che preoccupa maggiormente gli Stati Uniti. Washington teme un saldatura tra Stati come il Sudan, i movimenti islamici in Somalia e i gruppi integralisti arabi, compresi nauralmente quelli che stanno sulla sponda arabica. Anche il Kenya è ritenuto tra i Paesi a rischio della propaganda islamica, sia per la presenza di una consistente minoranza araba, molto attiva sulla costa, sia per l’infiltrazione dal confine di bande provenienti dalla Somalia. I marines americani l’anno scorso sono sbarcati nel Nord del Kenya per lanciarsi tra lagune e mangrovie alla caccia delle formazioni delle Corti islamiche somale, per la verità senza grandi risultati. Anche l’ascesa in Kenya di Raila Odinga, rivale del presidente Kibaki, aveva suscitato una certa preocupazione nell’intelligence americana. Era stato notato infatti con preoccupazione che Odinga durante la campagna elettorale aveva corteggiato gli strati più poveri della popolazione, compresi i musulmani del Paese, molti dei quali non gradiscono l’allenza del Kenya con l’Occidente nella guerra al terrorismo. L’altro basilare alleato degli Stati Uniti nella regione è l’Etiopia che con l’invasione della Somalia, l’anno scorso, ha rafforazato la presenza nella regione petrolifera dell’Ogaden. Di queste ore è la notizia che nuove truppe etiopiche sono entrate in Somalia nella regione centro-orientale dell’Hiran. L’arrivo degli etiopici coincide con voci discordanti sul ritorno di milizie vicine alle deposte Corti islamiche. Gli equilibri in Somalia potrebbero entrare in una fase di nuova instabilità, con l’unica drammatica costante dei civili che in migliaia continuano ad affollare i campi profughi. Una cosa è certa: con il persistente dramma del Darfur in Sudan (dove si è appena insediata la missione mista Onu-Organizzazione Africana); l’anarchia cronica della Somalia; le pericolose frizioni tra Etiopia ed Eritera e ora anche il problema delle violenze post-elettorali in Kenya, l’Africa orientale si sta trasformando in una nuova vasta area internazionale di crisi. Sullo sfondo ci sono grandi interessi perché il Corno d’Africa rimane la testa di ponte per il controllo delle rotte petrolifere e della penisola arabica. Le basi navali possono sorvegliare il traffico di petroliere e delle altre navi che attraversano il Mar Rosso e il Golfo di Aden, inoltre l’Africa ha le più grandi riserve di petrolio dopo il Medio Oriente e l’America Latina (stimate con la Nigeria a oltre 100 miliardi di barili). Il tragico paradosso è che queste ricchezze non hanno neppure sfiorano la sorte di milioni di africani travolti da guerre, carestie e povertà. Alberto Negri