Alessandra Arachi, Corriere della Sera 7/1/2008, 7 gennaio 2008
L’impresa di fare impresa. Non è un gioco di parole. E’ la realtà, semplicemente. Una realtà tutta italiana
L’impresa di fare impresa. Non è un gioco di parole. E’ la realtà, semplicemente. Una realtà tutta italiana. Un esempio? Avviare un’impresa qui da noi costa diciassette volte più di quanto non costi nel Regno Unito. Ma anche undici volte di più rispetto ai nostri cugini d’Oltralpe, i francesi. In termini tecnici si chiama: start-up. Ovvero: l’avvio. Semplicemente quello: la partenza di un’azienda. Un imprenditore italiano deve mettere sul tavolo 3 mila e 600 euro, minimo, solamente per dire: ecco qui le carte, vi presento la mia nuova impresa. Le prime, primissime carte, ovviamente. In Inghilterra se la cavano con 207 euro. In Francia con 300 euro, circa. In Irlanda con 95. In Nuova Zelanda con l’equivalente di appena 41 euro. E soltanto la Grecia sta messa peggio di noi, nel mondo: oltre 3 mila e 700 gli euro necessari per avviare un’impresa. Eppure ben più dei soldi, contro l’imprenditore italiano è la burocrazia che si accanisce. Una ricerca che il Censis ha fatto insieme con la Confcommercio è andata a mettere ordine nei meandri burocratici delle aziende italiane. Ed ecco qui i risultati: cosa succede per lo start-up? L’imprenditore italiano deve girare per un paio di settimane almeno in nove diversi tipi di uffici. Auguri. Però all’inizio, almeno, c’è sempre l’entusiasmo che spinge. Ma dopo? Dopo il novello imprenditore deve imbarcarsi in diciassette passaggi attraverso la Pubblica amministrazione soltanto per ottenere permessi e autorizzazioni per, ad esempio, costruire il magazzino della sua impresa: totale 284 giorni appresso alla burocrazia. E dopo ancora? Dopo ancora per registrarlo quel magazzino o quel terreno, oppure un fabbricato: che fare? Questa volta l’impavido imprenditore di uffici ne deve girare ben otto, almeno. Come succede in Corea. Otto faticosi passaggi burocratici, il doppio rispetto agli altri Paesi industrializzati, in media. Perché in Svezia, ad esempio, ne basta soltanto uno di passaggio burocratico. Negli Stati Uniti quattro. «E la verità è che io passo il mio tempo a firmare montagne e montagne di carte che nulla hanno a che fare con l’impresa, ma sono soltanto fardelli burocratici». Matteo Colaninno, come dire? è uno che di imprese se ne intende. E’ il presidente dei giovani della Confindustria. Ed è esasperato dalla burocrazia. Meglio: affogato. Dice Colaninno: «Non penso proprio che sia aumentando i pacchi di carte o il numero dei passaggi burocratici che si rende più trasparente l’impresa verso il mercato. Anzi. La burocrazia ha senso se ha obiettivi nobili. E invece in questa maniera tende soltanto ad affaticare le imprese italiane. Soprattutto le imprese piccole. Non possiamo certo non tenere conto che ogni passaggio burocratico è un costo. Spesso un costo impegnativo. Le imprese italiane hanno bisogno di tutela». Perché sono vitali e creativi gli imprenditori del nostro Paese, oltre 7 milioni e 100 mila le aziende censite in Italia lo scorso anno. Ed è grazie a questa spinta creativa che ancora oggi da noi c’è il saldo netto positivo delle aziende, la natalità che supera sempre la mortalità: più di 70 mila il saldo attivo dell’ultimo rapporto Unioncamere (73.333, per la precisione). Lo stesso rapporto, però, ci segnala anche una brusca frenata. Un rallentamento del tasso di crescita: da 1,6 a 1,2%. E questo perché nell’ultimo anno le cancellazioni sono aumentate molto. Un segnale poco rassicurante. C’entrano qualcosa le tasse tutte italiane per le aziende? Da noi pesano per il 76% degli utili dell’impresa, contro, per capire, il 47,8% medio dei Paesi Ocse. Ma non solo. Oltre che molto di più, ci vuole anche molto più tempo per pagarle, le tasse: 360 ore, ha calcolato il Censis, ci mette un imprenditore a compilare i moduli dei pagamenti, contro le 203 ore della media dei Paesi dell’Ocse. E, va da sé, che il tempo è denaro. Ogni impresa in Italia ha bisogno, in media, di un impiegato che sia addetto soltanto a sbrigare i rapporti con le Pubbliche amministrazioni. Non è un onere da ridere. E in un conteggio globale, si stima che la spesa a carico del sistema produttivo per gli espletamenti amministrativi sia di oltre 13,7 miliardi di euro, pari a circa l’1% del Pil (dati 2005 Censis-Confcommercio). «Queste cifre non possono non farci capire che la misura è decisamente colma», dice ancora Matteo Colaninno. Che lancia una proposta al governo: «Introduciamo l’autocertificazione anche nel mondo delle imprese. E’ assurdo che una legge così bella e così antica non venga applicata proprio nell’ambito imprenditoriale». Sembra, sembrerebbe l’uovo di Colombo. «Io dico semplicemente che è possibile. Di più: è facile», aggiunge ancora Matteo Colaninno. E spiega: «Bassa fissare regole trasparenti. Diciamo che si può autocertificare tutto quello che non è tassativamente soggetto ad autorizzazioni esplicite e specifiche. In questa maniera non dico che potremmo eliminare la burocrazia, ma almeno saremmo in grado di tagliarne via una grande fetta. C’è poco da fare ironia: è davvero l’uovo di Colombo ».