Gianluca Paolucci, La Stampa 6/1/2008, 6 gennaio 2008
Per i Tata, l’orgoglio unito ad un certo gusto della rivincita dev’essere un fatto dinastico. E comprarsi un pezzo di Gran Bretagna, due simboli come Jaguar e Land Rover, potrebbe dare una certa soddisfazione anche simbolica al 69enne Ratan Tata, presidente del gruppo dal 1991 e quinto successore del fondatore Jamsetji Tata
Per i Tata, l’orgoglio unito ad un certo gusto della rivincita dev’essere un fatto dinastico. E comprarsi un pezzo di Gran Bretagna, due simboli come Jaguar e Land Rover, potrebbe dare una certa soddisfazione anche simbolica al 69enne Ratan Tata, presidente del gruppo dal 1991 e quinto successore del fondatore Jamsetji Tata. Si racconta ad esempio che lo stesso Jamsetji abbia costruito uno degli hotel più belli dell’India proprio per fare un dispetto agli inglesi che non avevano accettato lui e la sua famiglia in un albergo di Mumbai perché riservato ai colonizzatori bianchi. Leggenda vuole che lui, figlio di un agiato commerciante del Gujarat, ferito nell’orgoglio, abbia voluto allora un luogo dove chiunque potesse entrare indipendentemente dal colore della pelle. Era il 1903, e dopo oltre un secolo il Taj Mahal Hotel è ancora lì, sul lungomare di Mumbai. Nel frattempo, dal cotonificio di Nagpur, nell’India centrale, aperto nel 1877, la Tata Sons è diventata una holding enorme e incredibilmente diversificata. Per rendersene conto, basta arrivare in aereo a Mumbai, dove il gruppo ha il suo quartier generale. Uscendo dall’aeroporto, illuminato dalla centrale elettrica Tata che fornisce energia all’80% della città, si potrà prendere un taxi prodotto dalla Tata Auto oppure un autobus Tata per andare fino all’hotel. Magari della catena Taj Mahal, che ovviamente è ancora dei Tata. Nel tragitto, si potrà ammirare il grattacielo che ospita la sede del gruppo e una volta arrivati in albergo, per ristorarsi, niente di meglio di una buona tazza di tè fumante, Tata anche quello. Poi si potrà telefonare a casa utilizzando Vsnl, l’operatore telefonico a lunga distanza dei Tata, controllare l’ora su un orologio Tata, fare acquisti in un negozio Tata pagando con una carta di credito Tata. E questo per limitarsi alle cose a portata di turista, perché è dei Tata anche il secondo gruppo mondiale dell’acciaio (Tata Steel). Poi c’è anche l’industria chimica, la farmaceutica, i servizi finanziari, le assicurazioni, l’editoria, le costruzioni. Novantotto società operative in totale, delle quali 27 quotate in borsa per una capitalizzazione di mercato aggiornata a ieri di 77,5 miliardi di dollari. Ovviamente la piattaforma informatica che gestisce gli scambi alla borsa di Mumbai è della Tata consulting services, che manco a dirlo è la più importante società di software e consulenza informatica dell’intera Asia. Detto tutto questo, non può stupire aggiungere che il gruppo vale da solo il 3,2 per cento del prodotto interno lordo dell’intera India, che ha chiuso l’ultimo esercizio con 28,8 miliardi di ricavi, che dà lavoro a quasi 300 mila persone. Se poi qualcuno volesse pensare a Tata come ad un fenomeno solo indiano, basterà ricordare che il gruppo è attivo in 85 Paesi nei cinque continenti e che genera oltre la metà dei suoi ricavi all’estero. Detto tutto questo, non deve sorprendere che Ratan Tata sia un simbolo dell’India di oggi, popolarissimo in patria per le sue capacità imprenditoriali ma anche per la grande attività filantropica della famiglia, che viene fatta derivare dalla loro appartenenza all’etnia Parsi. Certo, i detrattori notano che il suo gruppo, a differenza di altri imprenditori del Paese formatisi in anni più recenti, ha potuto contare sulla notevole chiusura del mercato indiano, che si è aperto agli scambi globali solo nel 1990 e che conta ancora un elevato livello di protezione dagli investimenti stranieri in molti settori. Oppure che la crescita degli ultimi anni è stata sostenuta soprattutto dalle acquisizioni, 23 in totale dal 2000 in avanti se andrà in porto anche Jaguar - Land Rover, per le quali il gruppo indiano sta trattando in esclusiva con Ford. Di certo, sotto la guida di Ratan il gruppo ha affrontato anche periodi difficili, come quando agli inizi di questo decennio il gruppo Reliance della famiglia Ambani - dei parvenu, rispetto al secolo e mezzo di storia imprenditoriale dei Tata - hanno superato per ricavi il gruppo. Crisi passeggera, dalla quale Tata è uscito brillantemente riconquistando la sua posizione di numero uno dell’impresa indiana. A segnare la saldezza del suo impero, appena un anno fa, l’annuncio dell’acquisizione per 12 miliardi di dollari delle acciaierie Corus. Un’operazione carica di significati simbolici. Erano Inglesi anche quelle, si chiamavano British Steel ed erano l’orgoglio dell’industria pesante britannica. Ma quell’acquisizione è stata anche la più grande di sempre da parte di un’impresa indiana, salutata dalla stampa mondiale come l’inizio di una nuova era nella quale l’India diventava, sessanta anni esatti dopo l’indipendenza, da Paese colonizzato a colonizzatore. Ratan Tata, evidentemente, tiene molto ai gesti simbolici. Per annunciare al mondo l’acquisizione della ex British Steel scelse i saloni del suo Taj Mahal Hotel di Mumbai, che è ancora uno dei più belli dell’India, con il busto del fondatore in bronzo che campeggia nella scalinata dell’ala vecchia in stile coloniale. Da quell’hotel, il gruppo Tata è partito per aprire alberghi e resort in giro per il globo, da Dubai a New York senza dimenticare, ovviamente, Londra. Dell’albergo riservato ai bianchi che più di un secolo fa rifiutò Jamsetji Tata è rimasto invece solo il ricordo.