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 2008  gennaio 06 Domenica calendario

LA STAMPA 6/1/2007

GIAN ANTONIO ORIGHI
Si può accettare un musical sulla Shoah? E’ l’interrogativo che si poneva l’autorevole e filo-socialista El País anticipando Ana Frank. Un canto a la vida, il primo show al mondo, con tanto di canti e balli, che si ispira al celeberrimo diario della ebrea tedesca Anna Frank. Il libro è stato scritto dalla ragazza tra i 13 ed i 15 anni, mentre si nascondeva con la famiglia ad Amsterdam, prima di essere catturata e poi uccisa nel 1945, nel lager nazista di Bergen-Belsen, a 16 anni. La tragedia che simboleggia l’Olocausto era già stata rappresentata a teatro nel 1955 ed al cinema nel 1959, ma da allora la Fondazione Anna Frank di Amsterdam, che ne detiene i diritti, non aveva più concesso l’autorizzazione. A sorpresa ha fatto un’eccezione per lo show spagnolo.
Persino Steven Spielberg, ebreo e discendente di vittime dei campi di sterminio hitleriani, ha ricevuto un clamoroso rifiuto dalla Fondazione quando, negli anni ”80, voleva ispirarsi al Diario per un film (si è rifatto poi con Schindler’s List). Invece è arrivata il via libera per il musical che andrà in scena il prossimo 28 febbraio al Teatro Calderón di Madrid. A guidare il varietà che si annuncia sorprendente sarà Rafael Alvero, direttore generale della Federazione dei Cinema di Spagna (ed ex manager di Polygram Filmed Entertainment e Universal Pictures iberici), mentre il responsabile musicale sarà José Luis Tierno, compositore di melodie da camera. Entrambi sconosciuti al grande pubblico.
«Questo show rispetta il messaggio della tolleranza, dentro la tragedia, che ci piacerebbe mantenere vivo - assicura Jan Eric Dubbelman, capo del dipartimento internazionale della Fondazione, presente alle prove -. Inoltre, essendo in spagnolo, può contribuire ad avvicinare la figura ed il messaggio di Anna Frank al mondo latino-americano, una comunità che sente grande interesse per lei». Alvero, da parte sua, spiega: «Ho impiegato 10 anni a guadagnarmi la fiducia degli olandesi. Inoltre con questo spettacolo realizzo una promessa fatta a mio figlio; contro la xenofobia, mantenere viva l’immagine di Anna Frank per i diritti dei bambini».
Però sempre El País, che sbatte il caso in prima pagina, osserva: «E’ difficile immaginare come il ritmo e la luce forte che ben si associano alla commedia musicale, possano incastrarsi in una storia cosi tragica». Alberto Vázquez, che interpreta Otto, il padre di Anna (l’unico superstite della famiglia dal lager) rivela addirittura: «Nello show non stonano umorismo, allegria e barzellette, perché i Frank se le raccontavano». Un’altra sorpresa arriva dall’interprete principale chiamata a incarnare il simbolo della Shoah, l’ebrea che ha venduto 40 milioni di libri ed è stata tradotta in 40 lingue. Sarà Isabela Castillo, cubana rifugiata a Miami, 13 anni, scelta come una partecipante al Grande Fratello: un concorso mondiale via Internet.
Il critico teatrale di El País, José María Ridao, mette il dito sulla piaga: «Alcuni sopravvissuti ai lager, come Imre Kertész (lo scrittore ungherese scampato ad Aushwitz e Buchenwald, premio Nobel per la letteratura 2002, ndr.) hanno visto nell’inesorabile travaso in fiction e fantasia l’unico cammino per evitare che l’orrore cada nell’oblio. Per questo è stato favorevole a La Vita è bella di Benigni». Poi però tuona con sacrosanta ragione: «Come materia di fiction e fantasia, l’Olocausto non dovrebbe essere vietato a nessuna espressione artistica. Questa deve essere stata la ragione dell’ok della Fondazione al musical. Però la banalizzazione della Shoah potrebbe presentarsi sotto un altro segno: prodotti commerciali di massa che sfruttano la fiducia in fiction e fantasia come staffette della testimonianza».


LIETTA TORNABUONI
Anna Frank balla sul palcoscenico del teatro Calderón di Madrid: è una cubana di Miami tredicenne molto carina, Isabel Castillo nel musical spagnolo Il diario di Anna Frank, un canto alla vita. Ma si può cantare e ballare quando c’è di mezzo l’Olocausto? Polemiche e critiche accusano il musical di futilità, di mancanza di rispetto, di offesa al destino tragico della protagonista e dei suoi simili, di voler fare soldi sui morti d’allora.

Non è la prima volta che succede. Quasi le stesse accuse e obiezioni si sono levate nel 1997 contro La vita è bella di Roberto Benigni, film vincitore di tre Oscar e cinque Nastri d’argento, dove per proteggere il figlio bambino Giosuè dagli orrori del campo di concentramento nazista il deportato Guido gli faceva credere che quello che stavano vivendo fosse un gioco a premi con un carro armato in palio.
In questo caso alle critiche si aggiunse l’imputazione di falso, giacché non era mai successo nella realtà dei Lager che i bambini venissero detenuti insieme con gli adulti, genitori oppure no: e il paradosso ideato dall’amore paterno provocò tra alcuni, nel caso migliore, un forte senso di disagio. Analoghe recriminazioni nacquero nel 1998 con Train de vie - Un treno per vivere di Radu Mihaileanu: nel 1941, per evitare la deportazione da parte dei nazisti, gli abitanti di un villaggio ebraico romeno allestiscono un falso convoglio ferroviario sul quale alcuni di loro sono travestiti da militari tedeschi e gli altri da deportati, con il progetto di raggiungere la Palestina attraverso l’Unione Sovietica. Peripezie tragiche, ironia critica anche verso gli ebrei stessi, allegria, musica klezmer. Tutti e due questi film così criticati ebbero un gran successo di pubblico; lo stesso capitò ad altri film o testi teatrali dello stesso genere, in realtà non molto numerosi.
Intanto, il cinema internazionale forniva pure i peggiori esempi sanguinosi di torture e di morte, senza che nessuno si risentisse. Si capisce: la violenza quotidiana ci è ormai divenuta tanto famigliare da apparire nei suoi eccessi spettacolare; ma l’infamia dell’Olocausto rimane una ferita profonda dell’umanità, un sacrificio unico del quale sembra impossibile parlare con leggerezza. Una cosa è raccontare con umorismo la guerra, come Chaplin in Charlot soldato, Hasek ne Il soldato Sveik, Altman in M.A.S.H.; altra cosa, certo, è il massacro degli ebrei. La sensibilità speciale che abbiamo su questo argomento (sono pochi a non averla) è fatta di sacralità, di orrore, di pietas, di senso di colpa, forse in qualche caso d’ipocrisia; la reverenza verso l’Olocausto è spontanea o a qualcuno sembra obbligatoria; l’evento rappresenta sempre, dopo tanti decenni, qualcosa di assolutamente ingiusto e commovente. Pare esistere tra Olocausto e sorriso una fatale contraddizione, della quale gli ebrei sono particolarmente rispettosi, come è naturale e immancabile; tutti, se vediamo le immagini di tombe o targhe violate, o certe scritte fasciste ingiuriose e sacrileghe, ci sentiamo male, ne siamo inorriditi.
Ma di tutto al mondo si può (magari si deve) saper sorridere. Il criterio di giudizio non sta nel mettere al bando film o musical che si occupano con levità dell’Olocausto. Bisogna vedere come sono queste opere. Se sono belle, sentite e ben fatte, non possono offendere nessuno. Se sono grevi, sguaiate e quattrinaie, offendono non soltanto le vittime dell’Olocausto ma anche i propri spettatori.

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