Paola Di Caro, Corriere della Sera 6/1/2008, 6 gennaio 2008
ROMA – Il tempo per le riforme, per l’ultima chance, ci sarebbe ancora: «Chi ha la maggioranza, chi è al governo, ha onori e oneri
ROMA – Il tempo per le riforme, per l’ultima chance, ci sarebbe ancora: «Chi ha la maggioranza, chi è al governo, ha onori e oneri. E allora, se ne sono capaci, tirino fuori una proposta unitaria, sottoscritta da tutto lo schieramento, con le firme in calce a un testo parlamentare, perché in democrazia non contano le interviste o i talk show, ma gli atti. Noi siamo pronti. Ma loro sono davvero in grado di farlo?». E’ una domanda retorica dalla risposta quasi scontata quella di Giulio Tremonti. Perché il vice presidente di Forza Italia, alla capacità di Veltroni di guidare il processo di cambiamento delle regole sembra credere sempre meno: «Troppe divisioni nel Pd, troppe occasioni sprecate. Le riforme a "tappe" non fanno governance ma caos». Onorevole Tremonti, perché tanto scetticismo? «Vede, Giuseppe Stalin, antenato un po’ scomodo ma storico, aveva un metodo nella sua follia: prima di confrontarsi per la pace o per la guerra con un avversario, chiedeva: "Quante divisioni ha?". Appunto, quante divisioni ha Veltroni?». Lo dica lei «Diciamo che, come truppe in Parlamento, dove servono in quest’anno critico, pare averne – purtroppo – piuttosto poche. Tante divisioni sembra invece avere nel senso non militare ma letterale della parola: divisioni che emergono più o meno ogni giorno, e più o meno su tutto, dai valori alla sicurezza, dalle riforme al nome stesso del partito. Come si chiamerà nel Parlamento europeo? Socialdemocratico? Popolare? E dove non c’è divisione, è quasi sempre perché c’è silenzio ». Non è che il centrodestra in questo momento appaia molto più unito... «Ma il motore della dialettica democratica, e dunque della democrazia, è che più che l’opposizione è la maggioranza che governa ad avere il dovere di essere unita, di fare proposte unitarie». Che secondo lei ancora non sono giunte «Purtroppo, e purtroppo davvero, no. E’ il divisionismo il limite che sta emergendo nel Pd, un partito che i sondaggi più rosei danno al 28% e che, in teoria, potrebbe funzionare da massa critica per attivare le riforme». Ma? «Ma 28 su 100 è una cosa, 28 diviso 3 è un’altra cosa. E 28 diviso 3 è la matematica spaccatura del Pd, perché tre ne sono le specie biopolitiche: 9 sono i pd "puri" di Veltroni, con base esterna nel cosiddetto popolo delle primarie; 9 sono i pd "duri" di D’Alema e Fassino, con base interna ai gruppi parlamentari, e 9 la Margherita. Bene, tutte e tre le specie hanno un loro calendario per il 2008, con dentro interessi e valori diversi, progetti ideali e personali, piani reali e piani virtuali, agende chiare, segrete, dritte, storte. E non è tutto». Cosa c’è ancora? «Attorno al ceppo biopolitico principale, si agitano altre specie, nessuna disposta ad estinguersi: comunisti in moltiplicazione darwinista, populisti, socialisti, "campanisti". E la moltiplicazione delle specie è il campo ideale di esercizio per un potere politico di tipo speciale, il potere di "arbitraggio" alternativo e rotativo tra le varie specie. E questo potere essenziale non è di Veltroni. E’ di Prodi ». Cioè chi comanda davvero nel centrosinistra è Prodi? «In teoria Veltroni avrebbe dovuto avere una dimensione strategica e Prodi una tattica, ma è stato ed è l’opposto: Prodi sta riuscendo a trasformare in strategia la sua tattica del giorno per giorno. Il Pd avrebbe dovuto fare una cosa sola e semplice: le riforme. Ma Veltroni ha complicato il suo disegno sommando due cose diverse: le riforme, ma anche il governo. La storia insegna che "il potere costituito non è mai potere costituente", è difficile avere insieme il cotto e il crudo, la botte piena e la moglie ubriaca. E’ difficile fare le riforme la mattina e l’opposizione il pomeriggio». Insomma, per far decollare le riforme Veltroni avrebbe dovuto favorire la nascita di un governo di larghe intese, al quale oggi dice un no fermo e netto? «Per rendere più fattibili le riforme, se non un governo insieme, almeno sarebbe stato necessario un governo più neutrale, più arretrato dal fronte politico. Il governo Prodi è l’esatto opposto. E’ un fattore ostacolo, un fattore polemico continuo. Ogni giorno in tivù, in Aula, è propaganda ostile e violenta. Il messaggio è ossessivo e fisso: con Prodi stiamo passando dal buio alla luce, sono arrivati i fenomeni, gli unici capaci di guidare il Paese... Tutto questo non è costruttivo, è distruttivo». Ma con il dialogo tra Pd e FI non doveva iniziare il riconoscimento reciproco? «Ma il riconoscimento di che cosa? Che siamo democratici? Grazie, ma non ci servono patenti regie, ci basta il consenso degli italiani, che cresce ogni giorno. O riconoscimento significa che siamo qualcosa in più, una forza capace anche lei di guidare il Paese? Prodi, sostenuto da Veltroni, lo nega ogni giorno ». Insomma, l’occasione delle riforme è ormai perduta? «Forse è un po’ presto per dirlo, ho sempre pensato che le riforme fossero strategiche. Nel 1999 di legge elettorale si parlava solo per interessi di bottega politica: la mia proposta di legge elettorale, un sistema "alla tedesca" su base proporzionale con vincolo di coalizione per leader e programma e clausola anti-ribaltone, guardava fuori, alla governance dell’Italia nella competizione globale. Poi, a partire dal 2004 sul Corriere ho cominciato a parlare della "Grande Coalizione" come formula europea efficace per governare nell’età della globalizzazione, mentre la riforma a tappe proposta da Veltroni va in direzione opposta alla governance. Infine, la proposta di non fare il referendum sulle riforme costituzionali, con l’impegno reciproco a correggerle insieme ». Proposte respinte «E occasioni perdute. A proposito di "capacità di riconoscimento politico", chi aveva ragione e chi torto? La verità è che sta emergendo il limite del nostro Palazzo politico, in cui si scambia il particolare con il generale, si insiste a vedere una realtà che non c’è più, ci si occupa di tutto tranne che dell’essenziale. Tragicamente non si capisce che il tempo che arriva è di straordinaria e drammatica intensità e difficoltà, basta andare in un supermercato o fare benzina per capirlo. Ed è solo l’inizio». Se il dialogo fallisce, alle porte c’è solo il referendum. Che farà FI, visto che Bossi vede il voto come il male assoluto? «Vedremo, una riflessione per volta. Se del caso, con la Lega sarà necessario trovare una soluzione unitaria. Anzi, penso che sia stata trovata... ». Paola Di Caro