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 2008  gennaio 05 Sabato calendario

INTERVISTA A RODOTA’


Il manifesto, sabato 5 gennaio
Non la considera una provocazione, una trappola tesa alla maggioranza di governo. Stefano Rodotà, giurista ed ex garante della privacy, crede invece che sia giusto valutare «con altro metro» la proposta di una «moratoria» sull’aborto lanciata dal Foglio di Giuliano Ferrara: « il sintomo della grave regressione culturale e politica che stiamo vivendo», afferma. «Questo dibattito sta creando un clima che tende a rimettere in discussione, nel modo peggiore, un’acquisizione culturale e legislativa molto importante. Queste sono battaglie di lungo periodo che sarebbe un errore di sottovalutazione leggere solo con l’attualità. Non è affatto vero che a breve ci lasceremo alle spalle questa polemica: è stato introdotto nella discussione culturale italiana un tema che può avere effetti molto gravi».
Vale la pena parlare nel merito della proposta di una «moratoria» sull’aborto da portare in sede Onu al pari di quella contro la pena di morte?
«Io parlerei piuttosto del clima che è stato creato per riproporre il tema della revisione della legge 194 e in genere per affrontare la questione dell’aborto. Ecco, penso che corrisponda perfettamente alla regressione culturale che stiamo vivendo. Lo dico per diverse ragioni, prima fra tutte l’improponibilità del paragone con la pena di morte: l’associazione con la moratoria dell’Onu è stato un colpo mediatico ma certamente non un contributo alla discussione seria di un tema che ha bisogno di grande consapevolezza culturale. l’aborto non è il risultato di politiche dissennate di chi non rispetta la vita ma è qualcosa che si può dire accompagna antropologicamente il genere umano».
La consapevolezza era il primo insegnamento del pensiero delle donne...
«Sì, e in questo dibattito è stato completamente cancellato. La donna è sparita da questa discussione, è diventata semplicemente l’oggetto di macchine di dissuasione spacciate per politiche di prevenzione. Quello che si cerca di sostenere - per esempio mettendo su comitati medici composti anche da psichiatri che dovrebbero valutare le richieste di aborto - è il presupposto che la donna non abbia autonomia di giudizio, capacità di decisione responsabile. La prevenzione poi è intesa solo come politica di dissuasione, anziché di informazione sulla contraccezione, compresa la pillola del giorno dopo che invece viene demonizzata, e sulla disponibilità di servizi sociali adeguati per le donne madri. Con questa politica di dissuasione, in altri tempi si arrivò fino all’aberrazione di proporre un premio per le donne che rinunciavano all’interruzione della gravidanza. Una delle cose più orribili per una società; comprare un bambino non curandosi del dramma psicologico e sociale che ciò produce».
E la sinistra si salva da questa regressione culturale?
«Una ìarte della sinistra e del centrosinistra di fronte a questa offensiva mostra tutta la sua debolezza, la sua incapacità di reazione culturale prima ancora che politica: un altro aspetto della regressione che viviamo. Parlando della legge 194 bisognerebbe ricordare alcuni dati di fatto: l’abbattimento del numero di aborti, l’emersione dalla clandestinità che mieteva molte vittime, la fine del turismo abortivo che era un privilegio di classe, di chi poteva permettersi di prendere un charter per l’Inghilterra. Sempre per essere consapevoli della realtà, va ricordato che le politiche proibizioniste nei paesi come l’India dove si pratica l’aborto selettivo delle femmine sono state inefficaci perché aggirate con mille espedienti. E quando in quei paesi non era legalizzato l’aborto, le bambine nascevano e venivano ammazzate. l’aborto selettivo delle femmine è una prassi così antica che non si cancella da un giorno all’altro».
E sicuramente non si cancella promuovendo la cultura fondamentalista che vede la donna come un animale procreativo...
«Assolutamente. L’idea della donna come contenitore, sul cui corpo il legislatore può impunemente legiferare senza tenere conto della sua volontà, è di nuovo un frutto della regressione culturale. Abbiamo letto in questi giorni un dato inquietante: in Lombardia due terzi dei medici sono obiettori di coscienza. Questo è un fatto grave e mi ricorda che già dopo la legge c’era chi chiedeva l’obiezione perfino per i portantini o per i cuochi dei reparti dove venivano praticati gli aborti. Fin da allora si voleva costringere la donna ad una condizione umiliante, invece di fornire un servizio adeguato. Allo stesso modo, l’accettazione sociale dell’handicap non è una predica da fare alla donna: è la disponibilità di servizi, di sostegno, di investimenti sociali».
Di nuovo si parla di rischio di eugenetica, uno spettro adombrato di tanto in tanto dalla destra e dalle gerarchie cattoliche...
«Se non c’è una componente terroristica nella campagna anti interruzione di gravidanza, le argomentazioni finiscono per incidere assai poco. Ricordo benissimo che durante la campagna referendaria per la legge 194 il deputato democristiano Carlo Casini, oggi parlamentare europeo, andava in giro con un feto dentro un boccione. Si ricordi che i sostenitori della legge 40 difendevano il divieto per la diagnosi preimpianto dicendo che in caso di malformazioni la donna avrebbe potuto sempre ricorrere all’aborto terapeutico nel corso della gravidanza. Insomma, questo discorso sull’eugenetica non è posto con dati probanti e rimanda invece a una cultura che vuole la donna prigioniera di una sorta di pregiudizio negativo, non come un essere responsabile che manifesta il suo diritto a una scelta libera e individuale».
Si antepone invece la libertà di coscienza dei politici, non le pare?
«Per carità, la libertà di coscienza va sempre presa in considerazione. ma in realtà in queste materie cosiddette eticamente sensibili e che riguardano decisioni individuali, la libertà di coscienza che deve essere rispettata è quella della persona che deve prendere la decisione. Il punto chiave non è la libertà di coscienza del politico, ma il fatto che la legge non può espropriare la libertà di coscienza di ciascuno di noi. E questo è un limite all’invasività della politica e all’uso proibizionista della legge. Inoltre è anche evidente che così la politica perde il suo senso di grande dibattito pubblico e si privatizza, e anche questo è sintomo della regressione culturale. Il confronto tra le idee lascia il posto all’arroccamento sulla torre d’avorio della propria coscienza, della quale non si risponde né alla politica né alla collettività. Ma attenzione all’effetto cascata delle obiezioni di coscienza: perché allora un giudice non potrebbe rifiutarsi di applicare una legge non conforme alla propria coscienza?».
Eleonora Martini