Massimo A. Alberizzi, Corriere della Sera 5/1/2008, 5 gennaio 2008
MILANO
Prima di ieri la morte non aveva mai spaventato gli uomini e le donne della Dakar. Nonostante 55 vittime in 29 edizioni (25 sono piloti, i restanti spettatori, bambini piccoli inclusi), nessuno aveva mai pensato di fermarla perché, anche se non si dice mai ad alta voce, tutti lo sanno: la morte nel rally motoristico più famoso e pericoloso del mondo è un’eventualità ricorrente e mai da escludere, una faccenda sportiva in qualche modo compresa nel prezzo. Dopotutto, la leggenda si è consolidata nel tempo anche grazie alla scomparsa sul campo del suo fondatore, il francese Thierry Sabine. Il 15 gennaio 1986 stava volando a bassa quota per controllare le condizioni di sicurezza dei piloti in balìa di una tempesta di sabbia. L’elicottero su cui viaggiava in compagnia di altre quattro persone precipitò. Morirono tutti.
Dunque la Dakar funziona così: si corre, si rischia, si sogna, si vivono esperienze straordinarie, si compiono imprese eccezionali, si misura se stessi e a volte, purtroppo, si muore. Quando succede, i sopravvissuti si dispiacciono, qualcuno prega, poi tutti ripartono senza guardarsi indietro. lo show che deve continuare e tutto il solito genere di retorica che divide il mondo in due tra quelli che la Dakar la amano e quelli che la odiano. Chi c’è stato è solito dirti che non la potrai mai capire senza andarci. Chi non c’è mai andato, appunto, non capisce, critica, parla di follia. O così o così, insomma. Vie di mezzo non esistono, come nel deserto.
lì che Sabine ha l’intuizione un giorno del 1977, quando si perde nel deserto libico durante il rally Abidjan- Nizza. Dall’esperienza gli viene l’idea di creare una corsa che unisca Europa e Africa, «una sfida per i concorrenti in gara ma un sogno per tutti gli altri». La storia comincia nel 1979: da Parigi a Dakar attraverso Algeria, Niger e Mali, in auto, moto e camion, all’inizio con una classifica unica, poi in tre categorie divise. Da allora 28 anni di percorsi che mutano (nel ’92 la Dakar arrivò addirittura fino a Città del Capo in Sudafrica), il nome che cambia (da Parigi-Dakar a semplice Dakar) e un fascino che per molti non conosce incrinature. Comprensibile, perché questo raid estremo naturalmente non è solo una storia di morte, ma anche di esistenze che raccontano di aver capito tra le dune nuove verità su se stessi, proprio come accadde a Sabine il giorno dell’illuminazione.
La Dakar c’è chi l’ha corsa in Vespa (successe nell’80, partirono in 4, arrivarono in due) e chi ci ha capito qualcosa di più dei propri amici: l’anno scorso un pilota scese per disinsabbiare l’auto e venne abbandonato dal compagno manco fosse la moglie all’autogrill. Tornò a prenderlo un’ora dopo ma chissà se il rapporto è rimasto lo stesso. C’è chi ne ha fatto un buon argomento di parità sportiva: la tedesca Jutta Kleinschmidt – la più forte di una lunga teoria di donne dakariste, ultime delle quali Syndiely Wade, figlia del presidente del Senegal, e Vanina Ickx, figlia del grande ex pilota di Formula 1 Jackie Ickx – ha vinto nel 2001 tra le auto. E c’è chi nella sabbia ha forse capito che, in condizioni estreme, il nome diventa un optional: nell’82 Mark Thatcher, figlio del premier inglese Margaret Thatcher, si perse nel deserto e venne salvato dall’aviazione algerina solo dopo cinque giorni. Carolina di Monaco e il marito Stefano Casiraghi, invece, parteciparono nell’85 nella categoria camion. Si ribaltarono e si ritirarono dopo 15 chilometri. Per chi ama la Dakar, il disastro di un sogno spezzato. Per chi la odia, la fortuna di mille rischi evitati.
Adesso, con la gara, pure il dibattito è sospeso, ma la Amaury Sport Organisation, che gestisce il business, ha già fatto sapere che «il futuro della corsa non è in pericolo». Purché la morte da sfidare resti quella sportiva e non anche quella per terrorismo.
Alessandro Pasini