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 2008  gennaio 05 Sabato calendario

DAL NOSTRO INVIATO

DES MOINES (Iowa) – Passerà alla storia degli Stati Uniti come uno dei grandi discorsi, che hanno scandito la vita pubblica di questo Paese.
Echi di Abraham Lincoln, di Martin Luther King, di John F. Kennedy, nulla è apparso esagerato per sviscerare e collocare le parole ispirate e visionarie, che Barack Obama è riuscito a trovare giovedì notte, per celebrare la sua straordinaria vittoria nei caucus dell’Iowa.
Un discorso costruito intorno alla speranza, pietra fondante e lievito del sogno americano. Un racconto nel quale la biografia di Obama, «un padre dal Kenia, una madre dal Kansas e una storia che poteva succedere soltanto negli Stati Uniti d’America», è invocata per guardare oltre le barriere razziali e le lacerazioni politiche, verso un cambiamento che privilegi «l’unità sulle divisioni».
Ha ragione probabilmente il vecchio Ted Sorensen, uno dei principali consiglieri di Kennedy, quando definisce Obama il vero erede del presidente della Nuova Frontiera: stessa sfida anagrafica, oggi come allora «la torcia che passa a una nuova generazione di americani». Stesso significato eversivo di una sua eventuale elezione, quello il primo cattolico, questo il primo afro-americano.
Stesso gusto per il grande affresco, le visioni ideali, la retorica nel suo senso più nobile.
Ma in Obama c’è forse un ingrediente in più, il dono di una moderna cantilena da gospel con cui recita le sue orazioni, dove non è difficile rintracciare la lezione del reverendo King, che fece il sogno di un Paese riconciliato, quello che ora Barack vuole veder votato e tradotto in realtà.
Neppure i commentatori più cinici, giovedì sera, sono rimasti indifferenti alla potente suggestione del discorso di Obama, «lirico e travolgente » come ha scritto The New Republic. Con quell’attacco perentorio: «In questo decisivo momento della Storia, avete fatto quello che i cinici credevano impossibile. Siete venuti insieme, democratici, repubblicani e indipendenti, per alzarvi in piedi e dire: siamo una nazione, un popolo, il tempo del cambiamento è venuto».
Il film della sua vita, dalle strade di Chicago dove con una laurea ad Harvard scelse di lavorare per i più deboli e svantaggiati. La voglia di lottare contro le avversità. Le voci della campagna, quelle di donne e giovani americani costretti a lavorare di notte per pagarsi gli studi, ma non hanno l’assistenza medica. O quella di una madre, che non riesce a respirare da quando suo figlio è partito per l’Iraq e non smette di sperare di vederlo tornare vivo.
Immagini forti, che nel discorso di Barack si fondono nel talismano della speranza: «Quella cosa che è dentro di noi e ci dice, contro ogni evidenza del contrario, che qualcosa di meglio ci attende se abbiamo il coraggio di sognarla, di lavorare e di lottare per raggiungerla». O ancora, nel passaggio che lo ha fatto paragonare a Lincoln, «la convinzione che il nostro destino non sarà scritto per noi, ma da noi, da tutte le donne e gli uomini che non si accontentano del mondo com’è ed hanno il coraggio di trasformarlo in come dovrebbe essere».
Anche l’omaggio alle radici degli Stati Uniti, al loro ruolo nel mondo, il riferimento al movimento dei diritti civili per i neri, Obama riesce a inserirli in un contesto non conflittuale, nella mistica della speranza che guida il cambiamento: «Speranza fu ciò che spinse un pugno di coloni a sollevarsi contro un impero, che portò la più grande generazione a liberare un continente e guarire una nazione, che spinse giovani donne e uomini a marciare per le strade di Selma e Montgomery per la causa della libertà ».
Forse mai come nella notte dell’Iowa, Barack Obama ha fatto vedere il segreto- non segreto della sua ascesa. Quella di un candidato semi- riluttante ancora un anno fa, giovane senatore al suo primo mandato, che ormai lotta da pari a pari e potrebbe sconfiggere la rodata e formidabile macchina dei Clinton. E’ il segreto di una promessa. Indistinta, a tratti contraddittoria, però in sintonia con il cuore di un Paese, impaurito dalle emergenze, ma pronto e deciso a voltar pagina. Si vedrà già in New Hampshire se gli americani, come i loro compatrioti dell’Iowa, sono disposti a credergli.
Paolo Valentino